In fila al solito
discount dei poveri capito a fianco di un boss che vent'anni fa
voleva finirmi a pistolettate. Non gradiva cosa scrivevo, mi abitava
vicino e incontrandomi non mancava di salutarmi con trasporto,
agitando il cannone con gli occhi pieni di coca. Non il solo, ho
cominciato a fare il cronista praticamente immerso nella materia
prima, un piccolo inferno di boss, magnaccia, trans violenti, prima
tutti insieme in tribunale, come per una recita, poi in ordine sparso
al borgo selvaggio, ciascuno per i suoi sporchi giri, ma mi
conoscevano bene e che io scrivessi sulla loro pelle pareva, non del
tutto a torto, un tradimento. Uno era un bestione mezzo americano, un
figlio della guerra che faceva il buttafuori e aveva certi tatuaggi
che non si vedono sulle spiagge. Non gli piaceva che raccontassi i
processi nei quali era puntualmente coinvolto per sfruttamento della
moglie, un arnese che pareva Popeye il marinaio e non capivo come
qualcuno riuscisse ad andarci. Pagando, oltretutto. Voleva
massacrarmi ma io avevo un amico pizzaiolo che, in rango, gli era
superiore e mi proteggeva. Poi un altro ancora, che mi aveva
querelato: “Prima lo denuncio poi lo ammazzo”. Ridondante, come
strategia. Ma lo arrestavano esattamente per le cose che avevo
scritto e quindi almeno l'azione legale perdeva di vigore. È morto
mi pare facendo balconing, strafatto, per sfuggire alla polizia. E un
bel po' di altre faccende, che se mi volto a ricordarle non me lo
spiego di essere ancora qua e più o meno integro, a parte la schiena
sfasciata da una macchina entrata nella mia a palla di cannone da uno
scemo che poi avrebbe accidentalmente fatto fuori un compare,
pregiudicato, che me l'aveva giurata, un fascista psicopatico, e io
convinto si trattasse di un incidente ma un amico del nucleo
operativo mi svegliava, “No, guarda che quelli volevano proprio
te”. Così come mi volevano i farabutti di una setta dedita alla
raccolta indifferenziata di tossici infetti, che rapivano e adibivano
a schiavi, con tanto di catene ai piedi. Quindici ore al giorno come
operai calzaturieri, e poi i filmati su Hitler e Mussolini per la
rieducazione mentale, e non mancava “la lavanderia”, la stanza
delle torture dove volevano farmi sparire, visto che non me ne davo
per inteso e continuavo ad attaccarli. Fortuna che le cimici
funzionavano. Fortuna che una volta funzionò anche la macchina,
nella quale riuscii a fiondarmi sfuggendo a due picchiatori che mi
aspettavano in aperta campagna: un agguato tramutato da conferenza
stampa. E io? Io, ancora coperto di sudore ghiaccio, voglio godermi
lo scampato pericolo fino in fondo e vado al casale diroccato dove la
conferenza stampa la stanno tenendo davvero, tutto un mucchio di
bugie per demolire “quel giornalista vigliacco che non osa
presentarsi”. Invece io entro e li vedo sbiancare: cosa è andato
storto? Ritentate, cari, sarete più fortunati. Ma lì non possono
più macellarmi come vorrebbero, debbono stare al gioco, rispondere
alle mie domande e intanto qualche tossico, larve umane, mi striscia
alle spalle e riesce a esalare: non fermarti, ti prego. Mi avrebbe
fermato il giornale, di mezzo c'era pure qualche alto prelato, ma
intanto lo scandalo era scoppiato e la magistratura poteva andare
avanti contando su una consapevolezza diversa nella gente. Mai viste
una abiezione e una crudeltà peggiori, si procedeva per riduzione in
schiavitù e decine di ipotesi a corredo, orrende, comprese le
violenze sessuali: ai responsabili piacevano belli malati,
decomposti, prossimi alla fine.
Tutte avventure
archiviate, finché non ti capita di andare a far la spesa
incontrando un vecchio amico di gioventù. Lui non mi riconosce ma io
l'ho beccato subito, di spalle, tra gli scaffali. Si volta e gli
occhi, strabici e dilatati come palle da tennis, sono l'unica cosa
che gli è rimasta. È sempre enorme, la pancia oscena, ma ansima
come un bufalo e mi pare anche andato di testa. Sta con una tipa
scialba e parlottano nel loro slang del profondo sud. Adesso non fa
più tanta paura, solo un po'. Potrei buttarlo giù a mani nude prima
che tiri fuori la rivoltella che di sicuro porta addosso. Ma nel suo
declino specchio il mio: quanti anni volati via, sembrano i fiocchi
di neve che turbinano oltre il vetro del supermercato. Il fatto è
che questo qui dovrebbe star dentro a vita, ha gestito per anni il
giro mafioso più potente della zona, trafficava droga in grande
stile, taglieggiava (e tagliuzzava) le puttane e ha organizzato
rapine finite coi cadaveri. Entrava e usciva, me lo ricordo quella
volta che, saputo da radio carcere di trasferimenti da galere vicine
al solo scopo di farlo fuori, s'era finto pazzo e così s'era
salvato, l'avevano dimesso. Poi scemo lo è diventato davvero, a
forza di pippare, ma non capisco come mai stia fuori, tantopiù che
gli ultimi 10 anni di condanna me li ricordo e non mi risulta siano
già passati. E poi quelli come lui restano criminali fino alla fine
e allevano figli ai quali giustamente passano l'arte. Mah. Più lo
constato, questo Paese, meno lo sento mio. Esco quasi sorridendo,
avvolto nel mio Amarcord criminale, salgo in macchina, riparto e, i
vetri appannati, uscendo dal parcheggio per poco non mi scontro
proprio con lui: sai le risate, allora. Poi s'insinua in mente un
pensiero fatuo e cioè che più o meno tutti quelli che conosco non
immaginano neanche una vita come la mia. Nel mio piccolo. A cominciare da mio padre,
che aveva un po' la mania del “siediti ragazzo, lascia che spieghi
come funziona”. Sono lì che mi cullo in questa consolazione
curiosa e un po' patetica, forse edipica, quando il telefono fischia:
è la Vicky, la ragazzina cinese dal viso carinissimo che faceva da
segretaria al mio vecchio nel 1998, seconda ed ultima volta che mi
portò con lui in Estremo Oriente. Mai visto un essere umano mangiare
così e pareva Olivia, la fidanzata di Braccio di Ferro. Venti giorni
sempre insieme e s'era infatuata, io stavo attento a non alimentare
niente ma lei non aveva mai avuto un ragazzo e a 25 anni veniva in
albergo ogni mattina accompagnata dai genitori: cose cinesi, ma
intanto il primo batticuore lo viveva esattamente come le ragazze
occidentali, gli stessi atteggiamenti fintamente ironici in realtà
materni, gli stessi discorsi sdolcinati, “ieri sera stavo con i
miei amici laggiù, la vedi quella vetrina, e indicavo loro la tua
stanza d'albergo”. Fingeva di sbagliare il numero della stanza in
piena notte e poi non metteva giù: “Sono confusa”. Non
confonderti Vicky che non è il caso, io riparto domani. E
salutandomi all'aeroporto di Pechino scoppiava a piangere, “Spero
di rivederti presto”. Poi l'anno scorso mi ha finalmente
rintracciato su facebook per farmi vedere che bel bambino sta
crescendo in qualche campagna a un'ora da Londra. “Ho una grande
novità”, mi scrive, “aspetto due gemelli”. Fantastico, non ci
posso credere. Prima o poi verrò a vedere la tua famiglia. Nevischia
e le spazzole stridono sul vetro, sono consumate, debbo decidermi a
sostituirle, ma chi ne ha voglia?
cambia le spazzole ,max. dispiacerebbe saperti morto o ferito per una sciocchezza del genere!
RispondiEliminaA me non tanto
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