Non entro nel merito
della decadenza di Berlusconi e del suo diritto o abuso di
salvarsene, delle manovre che la circondano, degli opportunismi
suddivisi. Non potrebbe fregarmene di meno. Entro invece nella carne
di questa commedia umana, perché c'è una dimensione che mi pare
fraintesa, persino disprezzata, in modo allucinante. È quella del
darsi, dell'ipoetico “servire i vassoi alle mense”. Da una parte
c'è lui, questo potente al tracollo, comprensibilmente ossessionato
dalla prospettiva di “ridursi” a servire qualcuno. Dall'altra
chi, perfino sacerdoti cosiddetti “sociali”, lo irride per
questo, “Venga qui a pulire culi”. In certi casi, fornire
consigli in forma di opinioni diventa patetico oltremisura. Allora io
mi limito a dire cosa farei io nei panni di questo Cavaliere che
traballa. Io ci andrei. Io ci andai. Incontro al servizio, dico.
Andai a darmi, a spendermi, a 25 anni, fresco di laurea inutile e
decisissimo a sottrarmi alla camicia di forza della divisa, che
giudicavo sterile, un anno perduto. Scelsi una comunità di
accoglienza, dove svariate forme di disagio non solo trovavano
ospitalità, ma diventavano esse stesse ospiti, e un po' Caronti, degli obiettori di
coscienza che, come me, vi si avventuravano. Quelli malati, nel corpo
e nella mente, gli allucinati, gli impediti. Non era un posto
morbido, aveva anche una fama preoccupante, di setta, di durezza,
quella villa in capo una collina. Che potesse stritolare la mia fragile psiche, me ne accorsi al primo istante del
primo giorno, con una donna che spruzzava all'aperto lo spray contro
le zanzare. Pensai subito a un pretesto per andarmene, per farmi
trasferire. Due giorni dopo, ero tenuto d'occhio come soggetto
potenzialmente sovversivo, ma intanto già mi sentivo a casa mia.
Quando arrivò l'occasione, neanche la presi in considerazione. E non
è da dire che mi abbiano risparmiato, turni durissimi, corvées
tremende, ma in un mondo che non sospettavo mi piacesse tanto. Passai
anche i miei guai “politici”, perché lì dentro c'era un
condizionamento ideologico molto violento, e io non accettavo di
farmi plagiare e loro non accettavano che io resistessi. Questi posti
sono sette chiuse contro il mondo, anche se millantano il contrario,
e senza il collante di convinzioni arcaiche e vagamente paranoidi,
non possono reggersi. Ci mettono sempre troppo tempo a rivederle, e
sempre e solo in chiave utilitaristica e senza mai ammettere i loro
errori. Ma mi sto allargando. La faccio corta, anche perché se mi
metto pubblicamente a raccontare tutte le mie avventure, neanche
finisco di scrivere che mi arriva la polizia: era puro rock and roll,
amici, e quell'anno io fui effettivamente un pirata, a volte un
delinquente, comunque qualcuno che non sarei stato mai più. Io lì
dentro sono diventato un uomo, dal ragazzino che ero. Sto dicendo che
sono arrivato a confrontarmi con un ambiente contraddittorio e dispersivo, dove tutte le mie convinzioni andavano alla deriva, con dimensioni più grandi di me, anche
con qualche scrupolo di coscienza, con dilemmi che non sapevo come
gestire. Qualche collega abusò di una ragazzina sguarnita, come fosse la
cosa più normale del mondo, e non sapevo se parlare, fare giustizia
da solo o che altro. Sciolsi l'angoscia accorgendomi che tutti
sapevano tutto, che quel balordo non era stato né il primo né il
decimo, e che i responsabili, saggiamente, evitavano di fomentare uno
psicodramma dalle conseguenze imprevedibili e rischiose per l'intero
ambiente. Una lezione di vita, anche di cinismo, ma la vita non è
uno slogan e non si risolve con gli slogan. A farmi crescere, e
restava poco tempo, è stata gente che non poteva muoversi, che aveva
bisogno di me per andare a dormire, per fare qualsiasi cosa. Tanti.
Ne ricordo una. Pia, che mi gettò addosso responsabilità
insostenibili per il ragazzino fragile e sotto molti aspetti viziato
che ero. Insostenibili, ma le sostenni tutte. Finii per non fare
neppure i giorni di licenza che la legge mi accordava. La villa era a
tre chilometri da casa mia, andavo e tornavo quando volevo, ma
preferivo dormire lì. Dove capitava, come e a volte con chi
capitava. Ho conosciuto matti che parevano savi, saggi che credevo
fuori di testa. Ho viaggiato in lungo e in largo l'Italia, centomila
chilometri ho fatto quell'anno. Ho preso droghe, e le ho prese
perfino in case bigotte, che trasudavano ipocrisie. Ho rischiato
stupidamente la pelle. Ho dormito due ore per notte per un anno
intero. Mi sono esaurito al punto che mi ci è voluto un anno, dopo,
per riprendermi. Ho pulito i miei culi, ma a volte hanno pulito il mio. Ho urlato la disperazione che altri non potevano
urlare. Di una cosa vado fiero, non essermi mai tirato indietro
davanti a nessun “servizio”, il che implicava anzitutto la
presenza. Quando, essendo io laureato, mi arrivò la proposta di
trasferirmi in ufficio, risi in faccia a chi me l'aveva offerta: il
mio posto è qui.
Di quella mia cognizione
del dolore, perché ce n'era da farsi sommergere, ho già scritto in
ordine sparso, ma era un dolore immerso nell'allegria,
nell'incoscienza con cui noi obiettori fuggivamo di notte o facevamo
all'amore con le scout in visita, anche in una durezza, nella rabbia
che non si può non provare quando si soffre, ma che oramai potevo
reggere, perfino gestire. Io parlo
per me: ma ricordo Leopardi, le sue considerazioni nello Zibaldone
sulla sterilità del bello e la fecondità dell'imperfezione e della
sofferenza, e le ritrovo non patetiche, non retoriche ma, al
contrario, profondamente pratiche. Addirittura. Proprio così. Anche
se Bruno dalla fede ascetica, granitica, che da anni non usciva dal suo letto, una volta mi disse: “Ci si stanca di soffrire, esiste un
limite, oltre il quale ogni fede muore”. E non sapevo cosa
ribattere, e non immaginavo che anche la mia fede un giorno sarebbe
morta. Perché ricordo anche, e questo sì non mi stanco di
scriverlo, la distinzione leopardiana sul dolore che, rispetto alla
gioia, non è un presupposto soggettivo ma una condizione perfino
materica, insormontabile, che si ferma all'ignoto, non trova
consolazione nella fede. Non più.
Dopo quell'anno
incredibile sotto tutti gli aspetti, ripresi la mia piccola sfida nel
giornalismo. Sono ancora sicuro che, senza quei dodici mesi da film,
sarei stato uno scribacchino peggiore. Non ho mai rinunciato a
confrontarmi col dolore, in ogni articolo, fosse anche di sette
righe. Ed è per questo che, ancora oggi, dopo ventidue anni, vengo
raggiunto da chi non mi conosce e mi affida il suo disagio. Come se
sentisse. Come se cogliesse qualcosa che io stesso ignoro.
La sto facendo lunga. Mi
arresto. Perché, Cavaliere, hai paura di quest'altra decadenza? Perché non accetti la sfida col servizio?
Perché la consideri una mortificazione in fondo alla tua avventurosa
vita? Perché hai paura dell'unica esperienza che ti manca, e che può
mandarti in frantumi e poi – credici – ricostruirti come un uomo
diverso, almeno in una qualche misura? Perché, vecchio Cavaliere,
sfuggi questa opportunità di scoprire che il servizio è qualcosa
che tu presti, ma intanto ti accorgi che la chiedi, la ricevi, ne hai
un disperato bisogno?
Questo scritto è dedicato a Massimo Colucci, buono come nessuno, grande chitarrista, che ha appena raggiunto i suoi miti
Questo scritto è dedicato a Massimo Colucci, buono come nessuno, grande chitarrista, che ha appena raggiunto i suoi miti
forse perché ha paura di quello che può imparare su se stesso, di riscoprirsi uomo, oppure di scoprire che non lo è.
RispondiEliminaps. complimenti per il pezzo.
vit
Un'esperienza analoga alla tua, senza la quale non sarei diventato quel che sono, l'ho fatta anch'io a 24 anni a San Vittore, agente di custodia ausiliario (o di complemento), ritrovatomi "per punizione" a fare il tappabuchi, o jolly, per tutti e nove i mesi di permanenza al "Due". Prestando qualsiasi tipo di servizio, a cominciare da quelli "non previsti". In compenso ho conosciuto tutti i buchi del vecchio carcere e ogni tipo di situazione, immaginabile e no. Compreso un tentativo parzialmente riuscito di evasione. Lo rifarei, nonostante le sole 4 notti in cui ho dormito a casa mia, a sette fermate di tram di distanza. Il tipo di cui parli non può neanche prendere in considerazione l'idea: vive in un'altra dimensione, con la più buona volontà non ci arriva.
RispondiEliminaperchè è un cagone ed il culo ormai se lo fa pulire lui
RispondiEliminaCertamente, però in compagnia di Renzi, e Maroni, e Casini, e Scalfari e tutti gli altri complici e associati nel ridurre l' Italia come è ridotta.
RispondiEliminaPorrei un' altra questione: possibile che in un Paese dove nessuno paga mai nulla, soprattutto se le malefatte sono grosse ( qualche ladro di polli a volte si, un po' ), l' unico in galera è lo spregevole Fabrizio Corona ?
In effetti questa mi sembra una solenne ingiustizia: io Corona l'avrei fatto subito eliminare in carcere, perché mantenerlo per 7 anni?
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