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SOPRA LA SCHIUMA


Non è vero che si resta gli stessi, l'uomo è fatto per cambiare, gli capita anche se non vuole. È proprio la vita a riplasmarlo sfregiandolo; e i computer, che altro sono nei loro “resettaggi” se non simulazioni dell'animo umano? Siamo fatti di programmi, come i filosofi avevano ben intuito, che nella nostra scatola cranica a volte funzionano troppo, altre per niente, e capita d'incontrare chi ne attiva di insospettati: allora è l'attrazione reciproca, è l'amore, che ci dà l'illusione di rinascere, di ringiovanire. Passi il carattere, che poi è un generico atteggiamento verso la vita. Ma solo un mostro riesce ad essere impermeabile alle sue ingiurie. Ai tatuaggi della vita. Succede agli animali, figurarsi agli umani: ogni trauma, è dimostrato, provoca sconquassi chimici che alterano il cervello, il che porta a dire che la mente funziona in modo diverso.
Io sono cambiato.
Io cambio sempre.
Io cambio troppo.
Dopo un periodo nel quale ho davvero rischiato di morire, e l'ho sempre saputo, e ne ho la conferma ogni giorno, mi ritrovo quasi irriconoscibile a me stesso, io che non ho mai temuto di riscrivermi, che ho cercato di ridefinirmi perennemente, lungo tutti i miei giorni. Ma adesso è diverso, per un po' mi sono dato la spiegazione di una imprevista maturità, di una età che mi aveva raggiunto (oppure io l'avevo raggiunta), poi non mi è bastato più. Adesso sento che c'è dell'altro. E l'altro che c'è, è quello che manca. Molto di me è morto. Molto è sparito per sempre. Avevo un dono: una spregiudicatezza consapevole, un non so che di riserva, che mi consentiva di vincere facile, fin troppo facile e che per questo ho sempre usato pochissimo. Non la ritrovo più. Non so dove sia finita quella sfrontatezza, a volte allegra, altrimenti cupa, non so se ho conservato sprazzi di quell'istinto che mi portava subito a penetrare nella simpatia, o nell'odio, di chi incontravo. Quella capacità di sintonizzarmi, di capire con chi avevo a che fare, di cogliere l'impercettibile refolo di un'espressione, e da lì ricostruire una indole, c'è ancora. Quel talento di percepire il respiro di un pubblico, per comportarmi di conseguenza, se voglio lo tiro fuori. Quel senso di ragno che mi avvertiva di una insidia, perfino di una invidia, credo sia intatto. Sono io che non me ne curo oltre. Non so che farmene. Ho finalmente l'esperienza, ma non la forza di lottare se è il caso. Tutto di me è rinuncia adesso, è lasciar perdere, è passare oltre e questa non è saggezza, non è maturità, non è traguardo. Sono programmi che non girano più. È la mansuetudine del vinto, che teme di non vibrare, di non emozionarsi più. Di non più emozionare. Raggiungere. Fare breccia; discutere, appassionare, incazzare. Si arriva ad aver paura di chi si è stati, ci si sorprende a chiedersi: ma davvero sono stato capace di tanto? Davvero sono stato quello? E il tempo che ti distanzia, è sollievo ormai.
Io non sono appagato. Sono stanco, sono solo stanco, e le cicatrici nella mente, nell'animo, negli occhi le sento tutte, le conto una per una. Non mi sto trasformando nello Svedese di Pastorale Americana, non ho mai pensato che a rigare dritto si scampano i guai. È se mai l'incapacità di concedermi ancora una trasgressione, fosse anche in un pensiero recondito. Troppo sfinito per provarci ancora. Non ce la faccio più a volare sulla schiuma del tempo, delle sue onde. E tremo sui miei passi, quando sono da solo, e la malinconia che m'impregna adesso è diversa: non saprei dire come. Mi sento più fragile foglia, più gialla e sballottata da un vento cui non oppongo resistenza. Il buio, negli ultimi inverni, mi ha spezzato e non credo di poter guarire. Si guarisce da una ferita, non da qualcosa che non c'è più, che è stato spazzato via. Io mi sento che manco, e neanche ho voglia di cercarmi. Perché so che è inutile, perché non ha più senso. Apprezzo la mancanza di tempeste, la piattezza della quiete, lo scorrere dell'indifferenza. Qualche giorno fa mi sono piovute nel blog minacce esplicite, che ho pubblicato, legate ad ambienti omicidi. Non mi hanno più smosso neppure l'adrenalina, non mi hanno riportato ai primi tempi di questo mestiere, quando ne facevo collezione e dovevo guardarmi da ogni paio di fari, e solo tardi scoprivo quanto vicino fossi andato a distruggermi. Adesso ci ripenso, e non mi pare possibile tutta quell'avventura, e non mi sembro io quel ragazzo che credeva di sfidare il mondo con le parole.
Ogni mattina mi alzo e spero solo che il nuovo giorno si concluda senza sussulti. Ma una voce, da qualche parte in fondo a me, mi canta: “Come sono cambiato, e tu, non sembri tu...”.  

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