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QUANDO AFFOGO


Ci sono dei momenti, o dei giorni, che hai solo voglia di sparire. Non dipende da qualcosa in particolare, semplicemente ti spegni, ti senti più sconfitto e inutile del solito, nessuna speranza ti rimane, nessuna esperienza ha più valore. Tutto gronda dolore, il mondo è solo una immensa pozzanghera di lacrime e tu ci affoghi. Perfino le piante sembrano lamentarsi, perfino il mare si contorce sconvolto. Nell'aria stridono gabbiani, e il loro monito di strazio è senza consolazione. Oggi per me è stato uno di questi momenti. Lunghi momenti che non passano, una fatica infame a sorridere, a tenerti occupato, poi resti da solo e t'infrangi in nell'oscurità di un viale, quando è scesa la sera, e ti senti l'ultimo uomo sulla terra e ti senti il più sconfitto dei cani. Il più solo. E tornavo a casa in Vespa e non passava e non sapevo cos'era, capivo però che qualcosa, chissà quando, s'è ammalato per sempre in me, senza possibilità di guarigione. Questo male è dappertutto, perché sta dentro me, è quello che mi fa vivere, sono io stesso. Negli scaffali del ricordo, solo volti segnati: storie da dimenticare, errori inarginabili e poi tutta quella solitudine, tutte quelle cicatrici. Quella disperata lotta per non arrendersi, ghermiti dall'angoscia. Sono io, destinato ad incontrare tutto questo? O non c'è altro da intercettare al mondo? Ferite ambulanti, ecco cosa siamo, col disperato dovere di subirci, di guardare avanti, anche se non c'è niente da vedere. Non abbiamo neppure il coraggio di riconoscere le nostre sconfitte. E una tenerezza di sconforto sale, per un destino troppo pesante da portare, tutti, chi riconosce la sua fragilità e chi si crede forte, chi ha smesso di difendersi e chi si arma di un cinismo inutile. Umani, figli di una condanna. Destinati a pagare la nostra attesa, alla fatica di tamponare il nostro sangue, che il solo vivere, incontrarsi, affidarsi alluviona...
Mi ero appena rimesso in sesto, quando, davanti alla cena, ho acceso sul telegiornale: c'era Casini che trascinava una polemica con Monti. Allora ho capito perché odio i politici. Non è la sporcizia di quello che fanno e che sono. È che non hanno un cuore, nessun'anima. Ne ho incontrati pochi, ma sempre tutti uguali, tragicamente incapaci di uscire dai loro intrighi, così convinti d'essere urgenti e necessari. Una volta, mancavano due giorni a Natale, stavo a Roma e la gente s'affrettava nelle ultime compere. In un vicoletto vuoto dalle parti del centro mi son trovato davanti Rosi Bindi, non vedeva niente e nessuno, parlava al telefono lo sguardo vuoto d'alleanze, di faide, biascicava oscure formule. Mi ha fatto una pena rabbiosa, nessuno è potente e solo come un politico. Questi sono esseri incapaci di dolore e chi non sa soffrire è pericolosamente stupido. Perfino un automa ha più sensibilità di un politico. Perfino un robot, al confronto, ha più vita.

Commenti

  1. Massimo mi hai quasi commosso. Certe volte, leggendoti, penso tu sia cinico fino all'osso. Poi capisco, ancora una volta, che invece si tratta di autodifesa e di qualcosa di molto raro di questi tempi: sensibilità. Vorrei poter dire qualcosa di non scontato per regalarti un sorriso. Piccola pausa... tirare fiato e tornare più indomito che mai. Di persone come te, il mondo ha bisogno.
    Matteo.

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  2. Come vorrei che quei momenti finissero, una tantum, almeno per uno di noi.

    Chiara

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  3. il grande Leopardi ha cantato con versi inarrivabili la quasi inutilità del nostro vivere, un selciato di dolore dalla nascita alla morte, dove forse la luce della fede, per chi ce l'ha, può dare una speranza, una consolazione....chi non ce l'ha, non può fare altro che rimanere nel buio per tutta la vita

    Davide; Milano

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  4. articolo umanissimo , quasi di resa ,e molto bello.
    Vp

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