Colgo in scia una vecchia
raccolta di Gianni Bella, proprio lui, e viaggio dove non mi aspetto.
Una viuzza assurda, via Astolfo, lunga venti metri e malfamata, di
giorno c'è l'ufficio postale, di notte chissà quali fantasmi;
congiunge le arterie di via Porpora e via Vallazze. E l'ho sempre
amata. Filtra un sole fine anni Settanta, un odore di polvere, un
richiamo di negozi: la trattoria toscana da Vasco, il negozio
di jeans International Shop, dove si vestivano tutti i tamarri noi compresi, la trafila di botteghe, stazioni d'una processione giornaliera scandita a sghignazzate, ciascuna un personaggio: i due fratelli salumieri, il Carlo e
il Giosué (rigorosamente con l'articolo), che non si sono sposati
per cui nel quartiere li chiamano “le sorelle Bandiera”. Carlo è
moro e bonario, ma un po' subdolo; Giosuè sembra il principe Carlo,
è rosso di capelli e tutti gli dicono che è carogna: “Ti, ròs,
te set catif!”. Lui ride carogna, è uno juventino infame in terra
di rossonerazzurri, un clandestino del tifo, un gobbo maledetto e, quando entro, mi ulula:
uuuh, il Bilan. Perché eravamo rotolati in serie B. A fianco ci sono
il lattaio, che somiglia al jazzista Lino Patruno e fa pagare anche i
decini, e l'ortolano che, manco a farlo apposta, è la copia di Nanni
Svampa (la moglie sembra Lucio Battisti). Ancora una vetrina e c'è
il ferramenta che tiene fuori una scala vecchia di almeno 40 anni, io lo chiamo "l'uomo meccano", è un tipo senza faccia;
ecco il bar tabacchi delle due gemelle, vengono da Carugate, non
sorridono mai, masticano sempre (fateci caso che i tabaccai ruminano
invariabilmente) e sbagliano tutte le marche: “Mi dia un pacchetto
di Merit”. “Lei ha detto Muratti?”. Potrei giurare che io e il
mio buon amico Tony abbiamo cominciato a fumare solo per andar lì e
ridere. Di fronte c'è il cartolaio misogino Sirtino, di cui ho già narrato,
e una panettiera che è certo Siusy Blady, ma una mattina sparisce
col marito e nessuno li vede più. Svoltato l'angolo, nella mia via
altre magie: la tintoria, con la signora che ha una bella voce
melodiosa che ricorda le doppiatrici degli anni Trenta, però dopo un
po' mi fa venir sonno; e il ristorante “Ai Gemelli”, dove son tutti piccoletti, sembrano piuttosto i sette nani
e c'è un cameriere nevrotico che pare, lui sì, il gemello di Pippo
Santonastaso e si comporta uguale: una volta ordino i maccheroni,
“però mi raccomando, solo due”. E me ne porta due di numero. E
non sta scherzando, è anzi infastidito quando gli dico: “Ma no, ho
detto due così, per dir due!”. Allora me ne porta due piatti. Ogni
tanto, la domenica mio padre annuncia: vi porto a pranzo fuori. E ci
porta lì ai Gemelli, che son dall'altra parte del marciapiede. Ma
quella via, la via Carpi, è così bella comunque. Anche qui c'è un
ortolano, anzi una coppia, lei Orietta Berti, lui Lino Banfi, hanno
dei cartelli con su scritto “arange”, “gipolle”, per la seria
“parla come mangi”, e lui mi racconta sempre di quella volta che,
passando da Porto San Giorgio, vide un camion praticamente entrato in
un muro. Quarant'anni dopo, vivendoci, riuscirò a localizzare il
punto con una precisione da Google Map.
Gianni Bella canta ed io
rimembro bancarelle al mercato di via Wildt, il banchetto delle
cassette coi bassi sparati, roboanti, non si distingueva una canzone dall'altra e
c'erano un paio di teppisti che ogni sabato andavano a rifornirsi:
fregavano di tutto ma facevano paura e il bancarellaro fingeva di non
vedere. E pure io, quando ci torno, fingo di non vedere un certo
balcone su piazza Gobetti dove stava la mia piccola Lio, che mai mi
si filò. Ma, cosa vuoi, certi amori sfortunati, non consumati ti
restano dentro a vita. Sempre in quella piazza,
l'edicolaio interista con la bella figlia che forse ci sarebbe anche
stata, non fosse che quel rompicoglioni del padre aveva sempre voglia
di litigare su questioni di derby e una sera la tirammo talmente
lunga che cominciò a venir giù e a lui gli crebbe una montagnetta
candida sul berretto, come a un pupazzo di neve. Se proseguo lungo le strade del quartiere,
m'investono ancora i fantasmi di un tipo strano, che stava sempre
dalla parrucchiera di mia madre, vestiva un unico orrendo completino
a quadri e diceva che era andato da Galtrucco: la prima volta che
l'ho visto, m'è venuto un colpo: cosa ci fa qui Toni Negri? Un'altra
parrucchiera stava nella “nostra via”, ricordava l'annunciatrice
Mariolina Cannuli, era assai volgare e diceva: Dio non ti credo ma se
fai vincere il Milan vengo a trovarti in chiesa. Stavo lì, ad
annoiarmi in tutti i miei 5 anni, quando un pomeriggio plumbeo di
dicembre la radio disse che c'era stata una bomba in piazza Fontana.
Più in là lungo la via Porpora, invece, due pietre miliari: il bar
caffè dal Marino, dove il mio amico Lucio, che a 15 anni vestiva di
sartoria, non i nostri "stracci da operai" dell'International Shop, ogni giorno puntuale alle due andava a prendere l'espresso con contorno di un pacchetto di “Malboro”; e la pizzeria Tre
Ceppi, il cui pizzaiolo aveva un grembiule regolamentare lercio, gli
zoccoli anche a gennaio, un naso aquilino, capelli corvini
prepotentemente meridionali e, quando t'incartava la pizza, la
infilzava con 2500 stecchini. Arrivavo a casa ridotto come san
Sebastiano.
C'è il sole, ho la
finestra aperta in questa fine ottobre e la mia raccolta di
Madeleines al dettaglio è finita, Gianni Bella ha smesso di cantare i
suoi frammenti Seventies. Mi specchio nello schermo del computer, controluce guardo me stesso che mi scruta: questa faccia s'è
allargata, porta gli occhiali e un orecchino, e gli occhi hanno visto
troppo. Ma quell'espressione è rimasta intatta. Quello sguardo di
quando c'era il sole, c'è ancora.
che bello spaccato, una Milano che non c'è più e quella che rimane che resiste ancora...un po' come nel quartiere di Trenno dove ho il mio locale e ritrovi il vecchio ferramenta, il Franco, che quando gli chiedi qualcosa te la porge soffiandoci via la polvere accumulata negli anni...E pure lui conserva un'espressione da fanciullo, pure quando è stanco e le bombole da portare anche a casa degli zingari gli pesano...Che ti si riservi la fortuna di conservare sempre questo sguardo del sole che, a ben guardare, c'è ancora
RispondiElimina1979, è un pomeriggio assolato di metà giugno, a Milano, in via Ricordi angolo piazzale Aspromonte, la prosecuzione di via Vallazze, c'è un edificio anni'30, è un ospedale, il Bassini "vecchio", entro al pronto soccorso sdraiato su una barella e vengo portato in fretta in rianimazione, un medico m'infila in vena due siringhe enormi, mastodontiche, l'una in un braccio e l'altra nell'altro e poi una flebo, mi addormento circondato da un nugolo di camici bianchi chini su di me, mentre la vista mi si offusca, non ho ancora 14 anni e perdere un bambino non deve essere una bella cosa per qualunque medico, mi risveglio dopo tre ore, la flebo al braccio mi fa male, le sirignhe sono sparite ma sento che l'angelo della morte che mi aveva accarezzato la fronte se n'è andato, in sala d'attesa i miei si risvegliano da un incubo, devo la vita a mio padre che ebbe un'intuizione provvidenziale quel giorno e a un medico del Bassini che si rese conto immediatamente della situazione e non perse un minuto....sono le nove di sera di giugno a Milano, in piazza Aspromonte angolo via Ricordi, il sole tramonta tardi in quel periodo dell'anno, sento entrare da una finestra aperta il grido delle rondini che volteggiano nella luce prossima a spegnersi e i rumori della strada, le voci di quella piazza dove a lungo ho giocato....per la prima volta nella mia vita ne sfioro la fine, la successiva sarà 32 anni dopo...ma forse non è così, è lei che ci sfiora ogni giorno e noi neppure ce ne accorgiamo
RispondiEliminaDavide, Milano