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VIETATO SOFFRIRE


Bisogna sempre essere così consolatori. Orientati al lieto fine, immancabile, trionfante, qualcosa che io non sopporto. Ho scoperto che la Rai ha mandato, credo ieri sera, una trasmissione dedicata a Renato Zero. L'ho recuperata sul sito della televisione, ho scorso vari passaggi. Non è costruita male, del resto sbagliare era difficile attingendo totalmente alle immagini di repertorio della cineteca Rai, in un caleidoscopio sorprendente come è quello del personaggio. Insomma sono andati sul sicuro: la trasmissione è stata affidata ad un service esterno e i curatori, che ho anche indirettamente sfiorato, un paio di mesi fa, non sapevano assolutamente niente del soggetto, delle sue canzoni, della sua complicata vicenda esistenziale. Il ritratto che ne viene fuori, affidato a tanti colleghi artisti, è inevitabilmente agiografico, una beatificazione in vita. E va benissimo, è la storia di un perdente di successo che poi diventa un dio, una vicenda in cui il genio, ostinato, irascibile, intrattabile ma irresistibile, la spunta e alla fine trionfa. Solo che non è così facile come viene raccontata. Non lo è mai. Quello che davvero manca, sul quale si scivola, si glissa, è il periodo difficile, a metà degli anni Ottanta, lui che non esce più di casa, che guarda tutti i suoi costumi ormai morti, senza sé dentro, e scoppia a piangere e a chi va a trovarlo ripete: “Non lo so se torno più, c'è troppa politica”, per dire troppe logiche inaccessibili, troppe porte chiuse. Lui, che appena due, tre anni prima, non faceva un passo senza legioni di adoratori isterici sulle sue tracce. Io avrei puntato tutto proprio su quella prigione di silenzio, quel cortocircuito del successo. Sulla disperazione. Sulla rabbia quando tutti ti abbandonano e Dio si fa d'assenza. Silenzio e assenza. Sulla paura, una fottuta inspiegabile paura. E poi sul coraggio, che dalla disperazione nasce, di scuotersi, di reagire, di uscirne in qualche modo, anche accettando i dovuti compromessi: non è coraggio, è banale inevitabilità, quel non poter fare altro che andare avanti, in qualche modo. Poi, se c'è il talento, qualcosa, forse, accade.
Ma la stagione più bella, i migliori anni della nostra vita, sono proprio quelli nell'imbuto, o nel baratro: è qui che si decide tutto, che si passa dalla morte a una rinascita. È in quelle lacrime, in quegli echi di silenzio che lasciamo la parte più vera di noi. E sarà quella nostra figura sconfitta, arresa, spogliata dell'ultimo costume, a restarci nel cuore, qualsiasi cosa succeda dopo. Tutto questo, nel documentario non c'è. C'è la solita cavalcata verso il successo, sopra il successo, come se tutto fosse scritto nelle stelle. Il periodo buio, durato quasi dieci anni, è liquidato in dieci secondi, come tagliando dal montaggio una sequenza della vita, come un trascurabile incidente di percorso. La sofferenza, la sconfitta, i ripensamenti, i rimorsi, i dubbi, le paure, le vergogne che quel silenzio porta con sé, vengono censurati: al massimo usati come un espediente del destino, un volgare trampolino per salire ancora più in alto: e dove sta scritto? Chi l'ha deciso? Chi l'ha dimostrato che alla fine il perdono d'Iddio, la redenzione definitiva scattano, automatiche, fatali, e ci salvano? Li avete mai contati, i rifiuti a perdere della vita, quelli che non si riabilitano mai, che non ottengono una rivincita, che non si rialzano più?
E, soprattutto, quanto costa saltare ancora, ammesso che ci si riesca ancora?
Ma il dolore lo si supera, non lo si dimentica. È la cicatrice che magari non fa più male, ma resta su di noi. Con noi. Dentro noi. Modifica ciò che siamo. Ci porta ad essere altro da prima. Una cicatrice è uno spartiacque. E quel dolore resta inchiodato in noi anche dopo che se n'è andato. Anche quando possiamo ricordarlo e sorriderne. Non accettiamo mai di celebrarci nel dolore, ci imbarazza la sofferenza, porta con sé il marchio della colpa, quantomeno un sospetto. E invece è quella che ci salva, se riusciamo a salvarcene. È l'unica cosa fertile. È il propellente per nuova arte. È la pena dolce di ricordarci sconfitti e la capacità, dolente, amara, di capire, infine, l'abisso di un altro. Di intuirlo e di medicarlo. Di riempirlo e spaventarlo, farlo andare via. E da quel sangue dell'anima si può uscire migliori, ma anche annientati: incrudeliti e perduti. Anche quando lo sconfiggi, non è mai completamente e in qualche misura anche lui sconfigge noi. Anche lui vince un po'. È la sfida più estrema, quella sua, è la croce che non scampi.
Il dolore, è lui che decide tutto di noi.

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