A
volte io mi sento infantile, condannato a restare infantile dalla mia
cronica mancanza di ambizione. Vedo i vincenti, quelli presi da una
carriera, li vedo correre da un impegno all'altro, da una esposizione
all'altra, fiere di se stessi, da un imbroglio all'altro, gente che
non può fuggire da se stessa, e anche se li so, in fondo,
allucinati, paranoici e infelici, mi paiono comunque più concreti,
più adeguati di me all'età che si trovano a vivere: non è questo
che si richiede a una esistenza, non sono le cose serie, le sfide
importanti, gli obiettivi perentori, la notorietà, il benessere, il
successo? Non è quel dar prova di sé, quel conquistarsi un posto
nel mondo, in modo da diventare affidabili, senza andar tanto per il
sottile quanto ai mezzi, per la piccola o grande tribù che da te
dipende?
Io,
esattamente come quando ero bambino, e poi ragazzo, non ho tribù;
resto schiavo delle mie passioni, che però sono cose da poco, sono
ancora quelle di allora, un disco che aspettavo, un bel libro, un
piatto fatto in casa, faccende così, da perdenti, da poveracci. E
poi le sensazioni, delle quali sono sempre stato drogato, fino a non
saperne fare a meno, e che oggi sfogo nella scrittura,
quell'inseguire perennemente l'approssimazione di uno stato d'animo,
sperando di avvicinarmi il più possibile ma senza conquistarlo
davvero mai, altrimenti è la fine. E così gli anni sono passati, ed
eccomi qua, ancora al palo, vestito come quando andavo a scuola,
senza grandi pretese, e tuttavia col problema di fare i conti con
l'età che ho o che mi ha raggiunto. Conti che ultimamente tornano un
po' di più, ma al prezzo di una durezza che mi ha insegnato la vita,
di un adeguarmi alle esperienze avute, che mi mette a disagio. Sì,
adesso sono più consapevole di essere un uomo quasi vecchio, e non
mi capita quasi più di considerare più adulto di me, più “grande”
di me chi mi sta davanti ed ha suppergiù la mia stessa età, o
addirittura è sensibilmente più giovane. Ho imparato che il
successo è una dimensione davvero insidiosa, e ingannevole. Non mi
faccio neppure più ingannare dalle divisa, sia quella di un
giornalista di successo, un medico, un professionista. Ho conquistato
anch'io, bene o male, il mio tempo, anch'io ho le mie avventure alle
spalle, alcune delle quali terribili, forse insostenibili per la
maggior parte degli uomini, che mi hanno lasciato cicatrici feroci. E
le ho vissute, oltretutto, con quella smodata intensità, con quella
lealtà senza riserve che ha sempre fatto parte del mio carattere, e
che non tutti sono in grado di sopportare: io le chiamo “i mari di
dentro”, per dire quei vortici di passioni che consumano l'anima
inghiottendola e sbattendola continuamente dappertutto, contro le
pareti della vita. È una scelta, o forse solo una necessità
inevitabile. Ma non c'è poi bisogno di rifugiarsi negli additivi
chimici, in chissà quali vizi e paradisi: basta affrontare fino in
fondo la carica emotiva di una situazione che t'investe, si tratti di
un lutto, un dramma, lo stato di bisogno di chi ti attraversa la
vita, perfino la gioia. Per esempio: voi vi fate trovare dalla morte?
Vi fermate ad ascoltarla, a contemplarla? O le sfuggite, illudendo di
sfuggirle? Per questa strada esci segnato, distrutto, ogni volta un
po' di più, eppure pronto per un'altro naufragio. Perché passione
chiama passione.
Io
questo ho fatto della mia vita. E non c'è dubbio che sia, questo
mio, un approccio romantico e quindi infantile. A questo punto ci
starebbe proprio bene una frase romantica e drammatica, orgogliosa e
disperata, del tipo “non rimpiango niente”. Invece non è vero
che non ho rimpianti. Tutti ne coviamo, ed io più di tutti. Non li
ripeterò una volta di più, ma le mie poesie sono piene di
rimpianti, sono rosari di rimpianti. E di rimorsi. E di ammissioni e
di disperazione. Ma non ho saputo essere altro che questo: posso
provare a venire a patti con la mia età e con i miei acciacchi,
sempre più insistenti, ma rinnegare me stesso no, non ho intenzione
di farlo e non avrebbe senso farlo.
E
però poi assisto sbigottito, sconvolto a questa truce processione di
uomini e donne maturi, responsabili, compresi e compressi nel loro
ruolo, gravi e gravati, impregnati e impegnati, sotto gli occhi del
Paese, a nominarne il primo cittadino, e la sensazione è che sia un
primo non per i cittadini ma un primus inter pares, uno di loro,
partorito dopo sfibranti, umilianti, invereconde e infantili
trattative. E mi pare tutto un gioco ai giardinetti in quell'Aula,
tra quei banchi, sotto quegli affreschi, dentro quegli addobbi, avvolti da un simile
apparato, prigionieri di quel certo cerimoniale, schiacciati da quei pesanti rossi sipari incombenti. E
non mi sembra più concreto l'inseguire il nulla dei cronisti, che
pure debbono inseguirlo, che non possono sottrarsi. Mi sembra tutto
irreale, ancora più della mia povera vita, e giuro che non sto
tentando pateticamente di consolarmi, anzi il più disperato sono io,
che non trovo non dico una pallida parvenza di una emozione, ma
proprio nessuna ombra di importanza, di ragione, di sentimento, di
senso in questo continuo votare e rivotare una cariatide piuttosto
che un'altra, nell'osceno coagularsi e disfarsi di un accordo che
dovrà andar bene a tutti, dovendo garantire una serie di condizioni
per tutti, ma così lontane dalle urgenze di questo Paese, così fini
a se stesse, così autoreferenziali. Così inesistenti, dopotutto,
come un gioco che a sera finisce, tutti se ne vanno, la Grande Aula
resta vuota, qualcuno la pulisce, qualcuno la chiude, fino al giorno
dopo, che si ricomincia a giocare.
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