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PERCHE' BERSANI E' BERSANI


Tutti pazzi (di rabbia) per Bersani, sputacchiato con l'allegria feroce e un po' sconcia che si registra sempre, 25 luglio o 8 settembre che sia. Intendiamoci, gli sputacchi Bersani se li merita, perché ha confermato d'essere una delle persone più stupide del pianeta. Però se li merita fino a un certo punto, e non da tutti quelli che glieli lanciano. In particolare, dovrebbero munirsi di uno specchio i tanti che sono andati a rivotarlo, versando il gettone di presenza, a quella farsa che erano le primarie, e sapendola farsa e sapendone il pretesto per far fuori il Renzi, che adesso tutti invocano (sei mesi sprecati, dunque). Votavano un grigiore umano che girava per le piazze vaneggiando di cooperative socialiste cui conformare l'Unione Europea, di Berlusconi mesto negli spogliatoi (per trascurare gli ormai usurati giaguari da smacchiare). S'è visto chi stava negli spogliatoi e chi invece c'è finito. Ora, siffatti votatori compulsivi, anzi pavloviani, rimproverano a Bersani di essere Bersani, ovvero di non essere abbastanza di sinistra, cioè addirittura non più ancora velleitario e fuori dal tempo di quanto già non sia, non abbastanza “cooperativa socialista”. Perché il problema della sinistra nazionale è precisamente questo: non sapersi mai adeguare ai tempi. E chi rimpiange il solito Berlinguer, riposi in pace una volta per tutte, non si accorge di dire la cazzata somma. Perché Bersani è proprio figlio di Berlinguer, di quella cultura politica lì, di quella claustrofobia lì, fatta di sezioni polverose, di manovre, tatticismi, bizantinismi, arzigogoli, di centralismo democratico, di fronde interne, di apparaticismo, di politburismo, di “Noi siamo un partito serio”, come Rino Gaetano faceva dire a Berlinguer per dire ci distruggiamo a vicenda ma sempre in modo ineccepibilmente democratico.

 Ora, il berlinguerismo, malattia senile del comunismo, ebbe un senso, e potè funzionare, in un mondo politico che, da Moro in giù, ne condivideva le contorsioni e gli arabeschi. Il mondo dei compromessi storici, della solidarietà nazionale, dell'eterna emergenza, dei grandi partiti padroni incontrastati della vita politica e pubblica. Ma Moro venne rimosso per tempo e Berlinguer morì appena in tempo per non vederlo crollare, quel mondo. 

Che ha cominciato ad andare in frantumi con Craxi, pragmatico nel rubare, ma non per questo odiato da una sinistra in fraterna condivisione di tangenti ed affari. Perché la questione morale del PCI fu una squisita ma insopportabile ipocrisia berlingueriana derivata dall'organicismo gramsciano essendo il PCI cinico quanto gli altri nello spolpare lo spolpabile; ieri come oggi, quando, per limitarci agli ultimissimi anni, il PD si ritrova falcidiato da un rosario di scandali che si chiamano Marrazzo nel Lazio, Soru in Sardegna, Errani in Emilia, Bassolino e Jervolino in Campania, Burlando e Vincenzi in Liguria, Emiliano in Puglia, Penati in Lombardia e via cantando, fino al capolavoro del Monte Paschi in Siena. Un partito così non è peggio degli altri ma è come gli altri e patenti di moralità, naturalmente, non può darne a nessuno. Quello che di Craxi si odiava davvero, era lo sganciarsi da certo populismo polveroso di sinistra, il suo “edonismo” veniva visto come una bestemmia nella chiesa marxista. Poi venne Berlusconi, e la sinistra postcomunista continuò con lo stesso errore, di adeguamento, di ostinazione nell'indignarsi ai lumini di sacre memorie molto mitizzate ma, per forza di cose, poco praticate. Alla fine il sistema è saltato completamente ed è arrivato Grillo che non è politico, è metapolitico come lo era Mussolini, Grillo è un fascista del tipo dannunziano, fiancheggiato da un marinettiano come Travaglio. E così abbiamo assistito, sbigottiti, allo spettacolo dei gerarchetti come Crimi e Lombardi che sbeffeggiavano un segretario postcomunista incapace di capire la realtà, di gestirla. Incolpare uno di essere quello che è, ha senso oppure è un esorcismo di massa? Ma sia chiaro che la cultura del Bersani perdente è anche quella del resto della nomenklatura ormai saltata, insieme ai Vendola ed agli Ingroia (che non è un politico sciocco ma solo uno sciocco, benché della stessa sensibilità). Una cultura perdente. E ciclica. Se lo rifacessero pure, questi nostalgici, l'ennesimo partito stile Pcus, magari insieme alle scorie grilline. Dura meno di una farfalla. 

Chi invece vuol vivere, compresi quelli che da anni si stracciano le vesti perché non trovano una sinistra più sinistra, si è persuaso che conviene adeguarsi e tenersi un Renzi che non è granché, con la sua subcultura fumettistica alla Jovanotti, ma che per il momento è l'unico a potere invertire la tendenza, a poter minacciare di vincere qualcosa dopo tante batoste. Il fatto positivo, se in tanto sfacelo ce n'è uno, sta qui. Nell'inevitabilità, per disperazione, per distruzione creativa, di una sinistra finalmente nuova, diversa, che non abbia paura di definirsi liberale, e magari anche un po' liberista, e non si senta sempre le cimici nel sedere al pensiero di dover mettere in soffitta una volta per tutte le sacre memorie, i sacri ritratti, il partigianato, la resistenza, la lotta continua, il fanatismo giudiziario, il feticismo costituzionale, il populismo sindacale, la mercanzia dei luoghi comuni coi quali non si va da nessuna parte. Il tempo non aspetta nessuno, però a sprecarlo riporta incubi pericolosi. Il PD non esiste più. Non si sa chi comanda. Napolitano, che tutti compatiscono rimpiangendo un analogo arnese come Rodotà, ha il compito di tenere insieme una Costa Concordia chiamata “Stato” e insieme di procrastinare elezioni che porterebbero al trionfo di Berlusconi. In un passaggio così delicato, Grillo, più irresponsabile che mai, per coprire la sua impotente prepotenza grida al golpe, manda avanti gli scemi, eccita animi già sconvolti. Momento brutto, momento di sbando e di follia che può portare a tutto.

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