Domani anticipo di
primavera. Frase secca, da bollettino del meteo, che in me racchiude
la vita. Una risurrezione. Non avevo mai avuto un inverno così duro,
e non parlo delle temperature. Ha rischiato di uccidermi, io sempre
qui, inchiodato qui, col mio fuoco di sant'Antonio che ho scoperto
terribile come dicono e non passa, non passa fin che fa freddo. Io
qui, col mio corpo sfinito, senza forza, e la mente che non si
arrende, che continua ad esserci. A scrivere. A muoversi. Soltanto
lei. Un inverno che non passava come non mai, spietato, ogni giorno
un guaio, un problema, un accidente foriero di un'altra notte
insonne. Inverno di risacca che scaricava le sue scorie, come quel
giorno, pochi giorni fa, che mi son trovato in faccia uno dei
provocatori dell'ultimo reading con Benvegnù, appena prima di
Natale, in una bettola di ubriachi e proprio il più squallido, il
più laido, quello al quale avevo promesso la paga se mai l'avessi
beccato, ma a sua differenza ho tardato a riconoscerlo appena quel
tanto da consentirgli di scappare, s'è messo a correre, una lepre,
s'è fiondato in macchina ed è schizzato via come Alonso da un pit
stop, che la rabbia d'averlo mancato mi si rompeva in una risata,
amara ma incontrollabile. Inverno maledetto, dove non ne è andata
giusta una che fosse una, inverno che ho già scritto, tutto, ora per
ora, il mio capitolo più duro, e un giorno lo farò leggere, succeda
quel che succeda. Inverno non di gelate, di nevicate atroci ma
pulviscolo d'angoscia, un dolore perenne, insinuante, febbricitante
nelle fibre, nelle ossa, che, dicono, se ne andrà via solo coi primi
caldi, con la primavera che, quasi a tradimento, sento infine
annunciare. Per intanto, quest'inverno senza senso m'ha lasciato un
tatuaggio senza forma là dove il fuoco si era concentrato, dove il
mio corpo mangiava se stesso, al culmine dell'esaurimento. Ma io sono
ancora vivo e punto il naso nell'aria e punto gli occhi nel cielo e
avverto il fremito sommerso della natura che si riscuote, si prepara
a esplodere. Ed io so, ormai so, che una primavera è solo una
illusione, da troppe primavere l'ho scoperto ormai. Ma so anche che
senza questa illusione non c'è vita, non c'è nuova vita, tutto si
ferma. Nell'inverno, nell'inferno del tempo che mangia se stesso. Per
me è già primavera il suo annuncio, il domani già oggi, in un
arido bollettino del meteo, perché la primavera, da tante, troppe
stagioni non è più viverla ma attenderla, ma sognarla, ma
immaginarla come quando c'era. Davvero c'era. Davvero si scioglieva
in me, ed io in lei, ed era un amplesso senza fine e senza malizia,
l'orgasmo degli angeli, che si distruggono d'amore riconoscente, che
si consumano di gratitudine infinita.
E quella era primavera di
dischi che arrivavano, di tramonti ogni sera più indulgenti. Di
promesse d'avventura e di rivincite. Oggi io non cerco più rivincite
e i dischi non escono più, entrano direttamente in questo mio
computer che è la mia protesi, posso ascoltarli, posso scriverli
prima che esistano, ci sono senza esserci davvero, sono dappertutto,
in questo nonluogo che chiamano rete e non ancora nei negozi, dove
peraltro nessuno li compera più. E pare una primavera digitale,
primavera virtuale, sterile, frigida. Ma vive nel suo ricordo, nel
mio ricordo e ogni volta che un raggio di sole mi trafigge io non
potrò non tornare in quella primavera che un giorno mi trafisse, e
fu per sempre. E allora le canzoni nuove e quelle andate si mescolano
in un suono diverso, che ogni anno cresce, perché è il suono della
mia esperienza, che non serve a niente, che non mi porta a niente, ma
c'è. E andrò ancora con mia moglie a controllare se sui rami del
viale sono spuntate le foglioline nuove, e posso andarci solo con lei
perché è la sola in questo mondo che non ride di me, vecchio
bambino arreso, che intuisce, perché quanto me ha bisogno di
foglioline nuove che ci sorridono sui rami, irraggiungibili.
E mi mancherà per sempre
quel profumo di caffè che esce dai bar, si spande sui tavolini, si
miscela con l'odore d'asfalto e di fumo degli scappamenti, ed è la
primavera che supera tutto in città, che avvolge gli uomini e li fa
vivere, gli fa pensare che, tutto sommato, sono ancora vivi e vibrano
e si perdono in una nuova vita fatta d'avambracci fuori dal
finestrino, la manica arrotolata, la radio che sputa parole, fatta di
scooteristi senza faccia ma con ridicoli pantaloni che finiscono con
un calzino avvolto in una scarpa da tennis, fatta di gente che torna
a casa stufa e c'è ancora luce che li aspetta, fatta di mille
rifiuti della metropoli trasandata che però la primavera rende
diversi, rende coreografici, regala loro qualcosa che somiglia a un
senso. Fatta di tram dove salire, spiare com'è bella, nonostante
tutto, questa città maledetta adesso che affoga nella primavera, che
guarda già all'estate. E quella gente che nella sua fretta ha meno
premura, adesso è un po' più allegra, quasi vaga. E quelle piogge,
leggere o furiose, che rischiarano i pensieri e non pungono più, non
fanno male. Ed io, che non ho più tutto questo se non dentro di me,
io che della mia solitudine mi nutro e muoio, posso solo far entrare la primavera dalla mia finestra, vederla
risalire dalla valle desolata mentre i miei gatti si sdraiano sul
balcone e ritornano primitivi sovrani nella savana e la guardano con
occhi saggi, la primavera, e sanno di cosa parla e non hanno bisogno
di sognarla perché sognare è mediare e loro invece sono vita pura,
vita nella vita e la vita non pensa, non sogna, non s'interroga,
semplicemente vive, semplicemente è. Il suo concerto di gioia è
fatto di sintonie complici, impercettibili, inevitabili.
Commenti
Posta un commento