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GIULIANO CLERICO – LA DIVA DEL CINEMINO


Ma solo chi conosce quella striscia di dorsale adriatica che va da San Benedetto a Pescara, spesso squallida, a volte di una luminosità invadente, spiazzante, può forse entrare in un disco come questo. Che di quegli umori contraddittori gronda. Ne “La Diva del Cinemino” (vivi complimenti alla modella), c'è un bel salto proprio a livello di cura sonica rispetto ai due già notevoli album precedenti, e Giuliano Clerico, oltre che un amico (metto le mani avanti, e aggiungo: queste non sono recensioni ma libere interpretazioni di personalissime sensazioni), è un tipo infido e traditore: te ne aspetti lo sberleffo ironico, svagato, perfino solare e incappi in un album grottesco, feroce, a tratti tragico, dove i retaggi accreditati – certo cantautorato folk italiano da Bennato al primo Celentano al fatidico Rino Gaetano – cambiano le carte in tavola: l'iniziale “Barbara” a me richiama addirittura il pop anglosassone alla Badly Drown Boy, ma poi c'è molta chitarra, ruggente, suonata assai bene da Giuliano, c'è l'armonica che scomoda certo Dylan, c'è la polvere della statale adriatica che può evocare altri spettri di Americana; ci sono i fiati che sono l'autentico valore aggiunto del disco, rendendo un'atmosfera soul ai brani, aggiungendo carica rabbiosa e testimoniando e di una cura particolare negli arrangiamenti; due, soprattutto, sono i momenti che trovo irresistibili: la incredibile “Il Prodotto”, che è pura disperazione Loureediana, e la conclusiva “Zona Industriale”, due minuti caustici che riassumono l'intera poetica di Clerico, fatta di invettive spesso deliberatamente oltre l'insulto e la trovata volgare (diceva Frank Zappa che a volte le trovate oscene soccorrono quando non si trova un accordo abbastanza brutto per dipingere la realtà). Forse Giuliano si sta avventurando dove Rino Gaetano non aveva potuto spingersi, causa prematura dipartita. Di certo, questo è un album che non lascia illusioni, non consola, fotografa i nostri giorni con spietato, disincatato realismo: fogli di calendario che passano negli stenti, nelle rinunce, che cerchiamo di esorcizzare con qualche piacere rubato, immediato, laido se occorre, di uno squallore privato, domestico, corporale. Come a dire che non possiamo niente oltre noi stessi, oltre i segreti che non sono più segreti, perché condivisi in quella contraddizione in termini che si chiama “società”. Album (autoprodotto) dove la linearità delle costruzioni è un punto di arrivo, non di partenza, cesellato con un ventaglio di soluzioni musicali a lasciare la scarnificazione della vita che ne esce, quasi suo malgrado; la vita brutta, agra, ma irredenta, ma incorreggibile. Disco ricco, suonato (e i musicisti sono tutti bravi), raccontato, incazzato, beffardo. Grande cinema, non un cinemino.

Commenti

  1. Scaricato e ascoltato. Bello, grazie della segnalazione.
    Gregorio

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  2. Disco formidabile, conoscevo già Giuliano Clerico. Aspetto di ascoltarlo dal vivo. Tra le altre cose, ho avuto il piacere di trovarlo anche su Spotify.

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