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QUELLO CHE NON VI HO DETTO



QUELLO CHE NON VI HO DETTO
Ancora due parole si possono, si debbono dire dopo l'ultima scorribanda di Benvegnù e mia qui in terra di Marca. I commenti li ho pubblicati, indicativi com'erano di un risultato, una sensazione che permaneva. Ma c'era qualcosa che andava oltre, un sentimento comune, l'incitamento a resistere. Resistere a cosa? Alla vita, direi. Leggendo, alternandomi con Paolo non mi è mai stato più chiaro di questa volta che chi ci viene a vedere, al di là di ogni altra considerazione, sembra intuire un tratto comune fra noi. Quello di due che non badano a spese con la vita, che intrecciano traiettorie mai facili – e potete credermi se, in certi momenti, ci siamo quasi stupiti di essere ancora lì, insieme, e non uno orfano dell'altro: ma orfano davvero e non per la stupida, bolsa retorica della rockstar che si sente “fortunata ad essere ancora viva”. Magari, fosse così! È l'esatto contrario, è che quando si decide di restare ragionevolmente liberi, e senza mezzi per opporsi al mondo, si finisce sempre per rischiare più del lecito. Ma siamo qui, una volta di più: io leggo, individuo volti sconosciuti, affiorano tra fisionomie ormai consuete, facce che non mancano mai; ma c'è qualcuno che riconosco, e mi conosce, in un modo diverso. Che è lì quasi “dietro le quinte”, sa già cosa verrà tra un attimo, ha già sentito quelle mie parole in un contesto molto più intimo, a casa sua o nella sua libreria, nel piccolo gruppo di esistenze che ci siamo costruiti fino a mettere insieme una sorta di famigliola trasversale. Ed io li spio e penso che sono felice che ci siano, sono sollevato, perché ho passato così tanto tempo a guardarmi le spalle. Così tanto tempo. E spesso non è neanche servito.

E con loro non serve. E con loro io posso sdraiarmi sul divanetto nel modo più sfasciato possibile e parlare di cose che in nessun reading, con tutta la mia libertà, potrei raccontare. Continuo a leggere. Mi volto e vedo Paolo, anche lui un fratello ormai. Ne conosco il coraggio e la furia, la fragilità e l'orgoglio. Ne conosco i giorni. Le lacrime. I voli. So che quel momento di due ore è solo l'ennesimo traguardo di una storia molto più piena di verità. E sotto un faretto e sopra un palco senza palco, con un minuscolo amplificatore portato da casa, mi sento ancora in famiglia. Due pezzi di qualcosa che si ricompongono davanti a voi. E se mi siedo dietro di lui, gli scippo una chitarra e comincio sommessamente ad accompagnarlo, credete pure che non è un vanto patetico ma un gesto che scoppia di significati. Io nutro senso di protezione per Paolo e da lui mi lascio proteggere; mentre per le poche altre presenze costanti della mia vita, quelle che adotto, che decido di adottare, nutro solo il primo sentimento, tendo a difenderle, sono “mie”, divento pericoloso se me le insidiano o maltrattano. Ecco, cari amici, quello che ancora non vi avevo detto nei miei reading. E un'altra cosa resta da dire. Voi venite, andate in pezzi, ridete forte; e forse saprete e forse non saprete che questo nostro spudorato, incosciente coraggio che siete lì a succhiare, è qualcosa di autentico. Di possibile, anche per voi. Noi volevamo: abbiamo pagato i nostri prezzi, continueremo a pagarli. Ma anche quel piccolo sogno in fondo al vostro orizzonte, è lì che vi aspetta. Al traguardo di una strada di fatica, di delusioni e di notti in bianco, probabilmente. Ma forse meno lontano di quanto non appaia. “Coraggio!” voi mi dite, come se andassi in guerra; e che sia una piccola guerra, senza fucili e senza eroi, pure lo intuite. “Tieni duro! Non smettere!”, mi incitate. E conoscete la mia tentazione di finirla qua, ogni volta. Di arrendermi alla sfiducia. Al dubbio di me stesso. Alla malignità di chi mi vorrebbe rassegnato. Ma oggi è questo incorreggibile stracciapalle a rimbalzarvi il cuore. Non arrendetevi neanche voi. Non senza combattere. Non prima di sfidarvi. Cosa credete, anche noi, lì allo sbando tra le vostre mani, abbiamo bisogno del vostro coraggio. Per continuare a darvi il nostro.


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