BUON COMPLEANNO, MR.
RONNIE WOOD
Le memorie delle rockstar
“sono noiose”, direbbe Dr. House. Tutte, anche quella di Keith
Richards. Anzitutto perché sono false, ovvero necessariamente
incomplete: per quanto spingano sui toni duri e macabri, si capisce
che le cose davvero sconvenienti le lasciano perdere, glissano. Poi
sono comunque autoindulgenti, perché tutti ci troviamo simpatici e a
maggior ragione una rockstar con l'ego ipertrofico. Infine, diventano
un who's who, un catalogo di ricchi e famosi coi quali far baldoria
(e ai quali sopravvivere). Ma se c'è una storia che fa eccezione, è
quella di Ronnie Wood, 65 incredibili anni oggi, seconda chitarra dei
Rolling Stones dopo avere suonato nei Faces e prima ancora nel Jeff
Beck's group. Woody è una istituzione musicale, ha schitarrato, si è
drogato, se l'è spassata con mezzo mondo e ha scopato con l'altra
metà. Quello che lo rende diverso è il suo umorismo prorompente,
indomito, quella misura di incoscienza che te lo fa amare senza
riserve. Certo, non un tipo da predere a modello, e neppure per
amico, uno che, invitato da Tony Curtis, gli fa fuori la cantina
pregiata e si fa buttare fuori; oppure, invitato da Carlo
d'Inghilterra, trova modo di fregargli un prezioso incunabolo
fregiato in oro, che poi gli viene richiesto indietro con un aulico
bigliettino della Real Casa. Wood degli Stones, un gruppo che carbura
da 50 anni a base di follia, è probabilmente il più fuori. Ancora
più di un Richards che senza preavviso si mette a sparare addosso a
una chitarra, credendola di Jagger (invece è la sua), roba
dell'ultimo tour; o che cerca di far fuori a coltellate lo stesso
figlio di Ronnie, che gli ha nascosto un petardo in uno spinello,
ovviamente esploso. Tutto questo non provoca a Wood altro che
divertimento. “La mia giornata di lavoro ideale è: ridere, ridere,
ridere... è già finito??”.
Un incosciente, uno che
ha sperperato fortune, ma anche uno che, insieme a Stewart, s'incunea
nel backstage del tetro, serioso Lou Reed prima di un concerto e
insieme gli scordano tutte le chitarre. Un demente, pericoloso,
inaffidabile, ma pur sempre come il compagno di scuola che ci faceva
divertire, o che avremmo sempre voluto essere. Un demente, non uno
scemo. Ronnie Wood resta uno dei grandi protagonisti del rock and
roll, e non suoni davvero con tutto il mondo se non hai qualità
tecniche (sempre sottovalutate, dato il tipo) e soprattutto umane da
spendere. “Io sono meglio di te”, gli dice Eric Clapton invidioso
per non essere stato reclutato dagli Stones. “Lo so, amore – gli
risponde Ron – ma con questi non ci devi solo suonare, ci devi
vivere”. E lui ce la fa, anche se non sa spiegarsi come: “Forse
perché sono tanto bello”.
E Ronnie, o chi per lui,
sa raccontare. È più essenziale e più vivace di Richards. La parte
iniziale della sua autobiografia, in cui rievoca la sua infanzia
gitana in una famiglia zingara, è altrettanto interessante, se non
di più, delle malefatte con gli Stones. E quando Ronnie parla bene
di qualcuno (cioè sempre), si capisce che lo fa con tutta l'onestà,
non come Keith che spesso ironizza per demolirlo meglio. E quando
racconta di tutte le sue avventure con tutti i suoi amici, non hai
mai l'impressione che ti faccia pesare la fama, ma che ti affidi il
suo entusiasmo di vivere, di fare amicizia, di rovinarsi. E di
suonare. Con un umorismo e un ottimismo da irresponsabile, ma
inestinguibile. Certo, le avventure di Ronnie Wood ingenerano anche
un vago sentimento di rimpianto, perché è il classico caso di
irresponsabile che, per quanto talento abbia, ne spreca la più
parte, in una vita perennemente alterata che lascia pochissimo spazio
alla lucidità: se si pensa che, a suo dire, Woody deve arrivare a 60
anni per “capire finalmente cosa mi sta dicendo Keith”, c'è da
domandarsi cosa di assai più valido avrebbe potuto spremere dalle
sue doti, che non erano né piccole né poche. Ma è anche vero che
personaggi come lui, e come tutti i Rolling Stones, possono produrre
il meglio solo nel peggio, creando dal caos, salvandosi dalla fine
proprio quando si gettano nell'arte. Sono le pressioni, le condizioni
impossibili a generare la creazione artistica, quasi per
disperazione. Ma Keith parte dall'umorismo per arrivare alla morte,
Ron dalla morte per arrivare all'umorismo. Inglesi diversi,
chitarristi diversi, biografie diverse, farabutti complementari.
Eppure, sulla lunga distanza, vince Ronnie. Che è ancora lì a
suonare dappertutto, a incidere dischi, a dipingere, a fare show radiofonici, a cambiar fidanzata (sempre più o meno dell'età di una nipote), a
sorprenderci con tutta questa carica di vita. Si è patetici quando a
65 ci si sente come a 20. Però poi basta guardarlo, per capire che
uno così non crescerà mai, avrà 20 anni per sempre.
Per fortuna.
Bellissmo articolo, hai scritto i miei pensieri circa Woody; il rolling stone che mi ha fatto amare gli stones... complimenti
RispondiEliminaStefano Sala
non credo che Keith sia meno onesto, è più acido e basta...comunque alla chitarra semidei entrambi, grazie per questo bell'articolo, certe cose non le sapevo
RispondiEliminagigi