Hanno qualcosa |
RICCHI
DENTRO
Questa
sera, poco fa, mentre aspettavo mia moglie, come in un idillio un po'
melenso, vagheggiando quel particolare collasso del giorno che sta
tra la fine del pomeriggio e l'inizio della sera, quella frattura tra
non più e non ancora, quando tutto sembra uguale ma tu
impercettibilmente cogli che tutto sta cambiando, ha già cominciato
a cambiare ed è come se l'aria si scuotesse per cambiarsi d'abito e
mettersi più in libertà, più leggera, e il tuo corpo non sai come,
pianta pensante, riceve vibrazioni diverse, si prepara al mondo che
si spegne accendendosi, ai lampioni che si scaldano, ai fari delle
macchine che occhieggiano, alle vetrine sul punto d'illuminarsi e non
puoi fare a meno di lasciarti rapire per un posto che non c'è ma che
c'è sempre stato dentro te, implodendo in fondo a un capogiro che ti
blocca immobile e teso come un gatto che non lo sa neanche lui cos'ha
sentito, l'eco di pensieri di là da venire, di sogni che ritornano,
di sensazioni che riemergono e quel mondo che si ridipinge con
languida lentezza di colori scuri è uno scrigno che ti si schiude
nella coscienza, e devi fare violenza a te stesso ripetendoti che non
sei più quel ragazzo (anche se resti vestito pressappoco uguale) e
che nessun sole di rimbalzo sui balconi di un palazzo, nessuna
penombra a piovere sulle edicole, nessun lampeggiare di coda di un
aereo sembreranno sposarsi con le lucette rosse della forma di una
torre che sbuca dalla periferia, e nessuna metropoli s'infilerà lo
smoking, sbrindellato quanto vuoi, per accogliere le tue scorribande
in moto – da semaforo a semaforo in un'accelerata rabbiosa, poi di
nuovo e ancora di nuovo a circumnavigare l'isola urbana, e intorno
a te grattacieli, intorno ai grattacieli le auto, intorno alle auto
il traffico, intorno al traffico i viali, intorno ai viali le piante,
intorno alle piante i quartieri, intorno ai quartieri i parchi,
intorno ai parchi le tangenziali, intorno alle tangenziali la
velocità di un aereo che solca l’aria tiepida che tutto ovunque
avvolge, mi sono fermato
davanti a una vetrina. Una boutique di paese, di quelle volgarmente
costose, col proscenio che dà sul marciapiede, dove vanno a
pavoneggiarsi i paesani che possono, e che non chiudono mai perché
tirano avanti coi soldi degli strozzini e dei mafiosi che di fatto le
possiedono.
Ho guardato dentro, c'erano dei ricchi, con facce da ricchi, intenti a provarsi dei capi firmatissimi ma imbarazzanti. I ricchi hanno qualcosa. Lo capisci subito, meglio della sera che viene. Sono ricchi. Quella maniera di muoversi, molle ma decisa. Quelle espressioni ineffabili. Quel modo di portare anche gli stracci, che si capisce benissimo che fingono. Hanno qualcosa, non so, una predisposizione, una presunzione, emanano consapevolezza che tutto gli è dovuto e tutto gli sarà dato. E non la perdono mai, perfino nei rari casi in cui finiscono in rovina. Ricchi si nasce, ma soprattutto si rimane. Ricchi dentro. Come un marchio a fuoco, un virus che si fa endemico o il bacio della morte. Sarà che chi prova l'estasi poi non la vuol perdere. Ma bisogna essere ricchi sul serio, ci sono tanti che spandono ma poi li vedi che ci provano, che non convincono, che si tradiscono. Non ce l'hanno quelle movenze, quella luce cattiva negli occhi, hanno se mai la scintilla dell'invidia o della disperazione, ma quella del disprezzo e della tracotanza no, lo sguardo naturale da ricchi gli è sconosciuto.
Mentre ero lì che osservavo, ho capito un paio di cose. Una, che per essere ricchi bisogna essere attrezzati, bisogna saperci fare ed io non ci arriverò mai. L'altra cosa che ho capito, è che io i ricchi li odierò sempre, non per questioni ideologiche o altro. Cioè io li considero sì colpevoli, ma non perché insegua una società diversa, senza sfruttati né sfruttatori, le società diverse non esistono, non possono esistere, se i poveri fanno la rivoluzione poi diventano ricchi e quegli altri ne prendono il posto (però sempre con la vecchia luce cattiva negli occhi) e allora cominciano a picchiare sui portoni dei quali i rivoluzionari hanno cambiato le chiavi, come nella storiella di Woody Allen. I ricchi ci debbono essere, se no i poveri non hanno senso; e viceversa. No, è che proprio io i ricchi li sento immondi in quanto tali, li sento una cosa diversa da me, mi si rizza il pelo, come se puzzassero. Gli puzza l'anima, ai ricchi.
Ho guardato dentro, c'erano dei ricchi, con facce da ricchi, intenti a provarsi dei capi firmatissimi ma imbarazzanti. I ricchi hanno qualcosa. Lo capisci subito, meglio della sera che viene. Sono ricchi. Quella maniera di muoversi, molle ma decisa. Quelle espressioni ineffabili. Quel modo di portare anche gli stracci, che si capisce benissimo che fingono. Hanno qualcosa, non so, una predisposizione, una presunzione, emanano consapevolezza che tutto gli è dovuto e tutto gli sarà dato. E non la perdono mai, perfino nei rari casi in cui finiscono in rovina. Ricchi si nasce, ma soprattutto si rimane. Ricchi dentro. Come un marchio a fuoco, un virus che si fa endemico o il bacio della morte. Sarà che chi prova l'estasi poi non la vuol perdere. Ma bisogna essere ricchi sul serio, ci sono tanti che spandono ma poi li vedi che ci provano, che non convincono, che si tradiscono. Non ce l'hanno quelle movenze, quella luce cattiva negli occhi, hanno se mai la scintilla dell'invidia o della disperazione, ma quella del disprezzo e della tracotanza no, lo sguardo naturale da ricchi gli è sconosciuto.
Mentre ero lì che osservavo, ho capito un paio di cose. Una, che per essere ricchi bisogna essere attrezzati, bisogna saperci fare ed io non ci arriverò mai. L'altra cosa che ho capito, è che io i ricchi li odierò sempre, non per questioni ideologiche o altro. Cioè io li considero sì colpevoli, ma non perché insegua una società diversa, senza sfruttati né sfruttatori, le società diverse non esistono, non possono esistere, se i poveri fanno la rivoluzione poi diventano ricchi e quegli altri ne prendono il posto (però sempre con la vecchia luce cattiva negli occhi) e allora cominciano a picchiare sui portoni dei quali i rivoluzionari hanno cambiato le chiavi, come nella storiella di Woody Allen. I ricchi ci debbono essere, se no i poveri non hanno senso; e viceversa. No, è che proprio io i ricchi li sento immondi in quanto tali, li sento una cosa diversa da me, mi si rizza il pelo, come se puzzassero. Gli puzza l'anima, ai ricchi.
Ricchi, ma di debiti.
RispondiEliminaDavide (Tokyo).