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MISTERI DOLOROSI - estratto 4

MISTERI DOLOROSI - estratto 4

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(...) Gli ex terroristi, oggi, sono tutti pacifisti. Lo sono anche i loro apologeti. Del resto, lo erano anche ai tempi dei “formidabili” anni di piombo, loro uccidevano per integrità morale, delegati dal popolo se non da dio, il dio della rivoluzione, della palingenesi, della catarsi. Ieri e oggi l'autocritica, quella dei diretti interessati e l'altra, di sponda, degli apologeti è un'onda di spuma gonfia di un vapore, l'ovvia constatazione che “uccidere è brutto”, destinata ad infrangersi presto sulla scogliera dei distinguo: e alla fine, ciò che era brutto, o sbagliato, o sconveniente diventa buono e giusto, o almeno comprensibile e storicizzabile.
Uccidere è brutto. Ma sopravvivere può esserlo di più. Come racconta nel suo “Colpo alla nuca” l'architetto Sergio Lenci, “semigiustiziato” il 2 maggio del 1980 da un commando di Prima Linea. Un diario afasico, fatto di parole scritte perché quella pallottola, irrimediabilmente saldata alle ossa del cranio, aveva tra gli altri guasti lesionato pure le corde vocali; e anche quelle del ricordo, che stringono, soffocano ma nessuno, constata la vittima, a un certo punto vuole sentirle più vibrare. Nessuno vuole sentire il racconto dell'esecuzione, della penosa degenza, della straziante convalescenza, dell'impossibile ritorno alla normalità, e poi dell'allucinante processo, dell'ambiguità poderosa di una macchina statale che vuole solo ridurre al silenzio, del ribaltamento della verità ad opera del potere politico-mediatico, dei mille mali che non passano, uno su tutti: perché a me? Lenci non troverà risposta, malgrado un fitto carteggio con i suoi aguzzini: ed è questa latitanza di una ragione, una ragione seria, comprensibile, salda, a ferire di più.
Tanto girarci attorno, tanto storicizzare (o, nel caso degli uomini di chiesa, destoricizzare), per non ammettere: non lo sappiamo neanche noi, non lo sappiamo perché andavamo in giro ad ammazzare la gente, a menomare sconosciuti di cui ignoravamo tutto e sapevano solo le fandonie costruite a tavolino, non lo sappiamo perché i nostri figli un bel giorno si alzavano e andavano a “giustiziare” uno colpevole solo, come nel caso dell'architetto carcerario Lenci, di non trovare nel '68 le palingenesi, le catarsi della storia che si concretizza. Non lo sapevamo allora e non lo sappiamo oggi, che da sconfitti reclamiamo attenzione e privilegi esattamente come quando giocavamo alla guerra, coccolati da parrucconi più irresponsabili di noi. Non lo sapevamo e continuiamo a non saperlo perché con tutta la tracotanza di ieri e di oggi siamo rimasti quei “Chicco”, per dire quei ragazzini feroci e viziati cui larghi strati di intellighenzia incredibilmente riconoscevano profondità di pensiero, maturità politica, finezza analitica, rispettabilità culturale, coraggio disinteressato. Mentre invece sbagliavamo tutto.
Con stile garbato, indifeso, che tradisce una mitezza ancor più straziante alla luce delle ingiustizie subite, dalla violenza alla sistematica negazione della propria dignità di vittima, Lenci racconta le ambiguità, le connivenze, le sottovalutazioni dell'ambiente universitario e politico verso i contestatori, come quelli degli “Uccelli”, gruppo dadaista, che pretendono un esame di gruppo cioè la lettura di un comunicato rivoluzionario da premiare col 30 generalizzato (da cui si deduce il progressivo sfascio di arti, mestieri e professioni in Italia), pronti ad aggredire, rovinare, calunniare, offendere chiunque si opponga alla loro pseudogoliardia opportunistica. Così tenuti in conto dai dotti, e magari un po' vigliacchi, monumenti di miopia. È la “cultura del terrorismo” denunciata da Lenci nell'introduzione al suo testo. Una cultura senza cultura, tutta eretta su un conformismo ammantato di anticonformismo. Proprio questa ammissione cruciale, “sbagliavamo tutto”, i carnefici la tengono per sé; e questa attesa vana è la fitta più dolorosa per chi ha avuto il torto di sopravvivere (...)

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