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ALLORA?

ALLORA?
Questa lettera aperta, io l'ho mandata perché non venisse pubblicata. Per avere, voglio dire, la certezza confermata che non interessava a nessuno. E per poterlo testimoniare. I giornali si riempiono di parole per i precari, per il loro destino, per l'articolo 18, ma la verità è che queste cose non interessano ai giornali, non interessano a nessuno. Tantomeno ai sindacati, che fanno lavorare la gente in nero o la sfruttano da sottoprecaria a cominciare dalla mitica Cigl (non facciamo le belle addormentate, figlioli). Eppure, io una lettera come questa l'avrei pubblicata di corsa. Perché è rappresentativa del futuro mancato di migliaia, forse milioni di persone. O forse è proprio questo, che non si vuole rischiare? E così, i giornali, tutti, si comportano come quel politicante secondo il quale chi guadagna 500 euro al mese è uno sfigato. E non sa quel che dice, perché la stragrante maggioranza degli “sfigati” raccattano assai meno di quella somma. A loro è dedicato questo mio racconto di vita spicciola. Non per consolarli, ma, ammesso che sia possibile, per far loro capire che, nella loro disperazione, c'è chi li capisce, e vorrebbe scrivere di loro, se solo fosse possibile sul serio.

Quella sul posto fisso, col riflesso del mitico art. 18, è una fanfara e una fanfaluca insopportabile perché vana, una bugia che distorce la prospettiva fin dall'origine. Il problema non è che non c'è più il posto fisso, ma proprio che c'è. Solo, non è tutelato. Parafrasando Marx, i precari di oggi da perdere non hanno più nemmeno le loro catene. Perché ufficialmente non le hanno. In pratica sì, sono come Jacob Marley, e condannati allo stesso limbo: addosso si trascinano non i simboli delle proprie nefandezze, ma di quelle subite, che diventano colpe. Posso citare un caso che conosco bene, quello di me stesso? Ho lavorato per un quotidiano nazionale per 11 anni di fila, e quando dico filati, dico sul serio: non un giorno di ferie, di festa o di riposo, mai prese le vacanze in estate, se c'era sciopero mi dicevano, amabilmente, “Noi stiamo a casa perché siamo giornalisti, ma tu lavora lo stesso e domani ci porti i pezzi”. E dovevo farlo, e lo facevo, perché, non essendo giornalista, mi caricavano di tutto quello che succedeva nella mia zona di competenza. Freschissimo di laurea, ho cominciato in tribunale, con la cronaca giudiziaria; poco dopo, quasi fisiologicamente si è aggiunta la nera, a questa la bianca, e poi le varie, gli spettacoli, non c'era avvenimento col quale non mi cimentassi. In provincia funziona così, o almeno funzionava quando io sognavo e trottavo. In quel decennio abbondante, ho passato più tempo negli obitori, gli ospedali, i tribunali e i distretti di polizia che nel mio letto. Ho visto di tutto, ho raccontato di tutto. So cosa vuol dire una minaccia telefonica, un agguato di picchiatori, la macchina spaccata, l'astio dei politici e una persona segata in due. Non ero un giornalista?
La mia scuola sono stato io stesso. Abbandonato alla strada come un gatto randagio, ho dovuto imparare a scrivere, e in fretta se occorreva: dovevo preparare a volte cinque, sei articoli in un paio d'ore, il giornale li voleva assai prima che scendesse la sera, e magari a metà pomeriggio stavo ancora in giro. All'inizio degli anni Novanta non c'era internet, dovevo battere i pezzi su una piccola macchina per scrivere, quindi imbustarli, portarli alla corriera che arrivava ad Ascoli, dove li prendevano, li ribattevano, li mettevano in pagina. Poi sono arrivati i primi computer, i fax e via via tutto il resto, ed io ho sempre lavorato da casa: il telelavoro praticamente l'ho inventato, e non mi ha mai mollato.
In undici anni non ho mai avuto lo straccio di una garanzia, e anche le spese erano a carico mio. Quando sono arrivati i primi telefonini è stato un salasso, mi svenavo senza l'ombra di un rimborso. Per non parlare della benzina. Mi è capitato di scrivere anche da ammalato, e perfino appena dopo aver subito un incidente stradale. Per inciso, non ho mai avuto neanche una querela. Minacce tantissime, querele zero. Dopo 11 anni di quella vita, a posto fisso ma senza posto, mi avevano convocato nella sede centrale, per assumermi: hai sgobbato anche troppo, mi dissero, aggiungendo di tenermi pronto. Mi sono tenuto pronto due mesi, non succedeva niente, al telefono si negavano, alla fine ho capito: era entrato qualcun altro. Così ho lasciato quel giornale, perché per giocare al non-giornalista, stavo prosciugando la mia famiglia: nel 1990, quando avevo cominciato, prendevo diecimila lire lorde a pezzo; nel 2001, erano 5 euro, e la promessa era quella di dover scrivere ancora di più e per compensi sempre minori. Mi sono trasferito in un altro giornale, ma la faccenda era più o meno la stessa, e alla fine ho chiuso anche con quello. Non era possibile essere di servizio 24 ore su 24 a quelle condizioni.
Contemporaneamente ai giornali, ho collaborato per 18 anni con un'agenzia di notizie. 8 euro a lancio. Sempre da autonomo, ma tenuto ad essere acceso e vigile senza pause, io sono l'avamposto, la linea avanzata, il fante in trincea, non è neppure pensabile il far presente che una autonomia, visto che c'è, funziona in senso biunivoco. Se uno fa parte del mondo dell'informazione, sa cosa intendo.
Tra una cosa e l'altra, ho anche lavorato per circa 14 anni con un periodico di nicchia ma a diffusione nazionale. Non ho mai saltato un numero, scrivendo spesso più articoli ad ogni uscita. Mi occupavo di cronaca, attualità, inchieste, interviste e alcune, posso dirlo, fecero davvero scalpore. Giornale piccolo, ma son riuscito a portargli i contemporanei, quasi tutti, ed hanno sempre confermato correttezza e professionalità da parte mia. Non ero un giornalista?
Ho girato l'Italia per 14 anni, senza mai chiedere una stanza d'albergo o un rimborso per una cena. M'arrangiavo a dormire dove capitava, uno zingaro sempre ospite di qualcuno. Per due volte i miei compensi, già modesti, sono stati ridotti d'autorità, ufficialmente a causa della crisi. Mitica crisi, che mette sempre a posto tutto. Alla fine, mentre ancora aspettavo il pagamento di un intero anno (400 euro al mese, escluso agosto), ho ricevuto una proposta: siamo una squadra, una famiglia, siamo tutti nella stessa barca, ti va di continuare a lavorare gratis? Al limite, forse, se ci scappano, duecento euro al mese (scopo che si prefiggevano già da anni), ma sarà difficile.
Dopo 14 anni di lavoro. Poi fingono di dolersi se uno non li cerca più. E va bene, mi toccherà farlo, visto che restano alcune disinvolte dimenticanze. Anche questo la dice lunga sull'andazzo corrente.
Io non sarò un giornalista, ma da 22 calendari pago regolarmente la mia iscrizione all'albo. 120 euro, quest'anno. Non ho garanzie, non ho tutele. Naturalmente verso, a mie spese, la copertura previdenziale: in questo sono un giornalista a tutti gli effetti. E se sbaglio, pago in proprio, non vado a piagnucolare come Formigli perché la Fiat gli ha chiesto la cifra teorica di qualche milione. Tutto fumo negli occhi, i giornalisti temono i risarcimenti ragionevoli, non quelli faraonici, anzi, più esagerati sono e più sanno che non dovranno pagarli. Diventano una formidabile vetrina, una patacca al valore del giornalismo eroico, scomodo, imbavagliato. Davvero tutta da ridere...
Nel mio piccolo, mi sono cimentato con ogni ambito di informazione, ho seguito l'evoluzione tecnologica che modificava il giornalismo, ho tenuto corsi e lezioni nelle scuole, un po' d'esperienza credo d'essermela fatta anche perchè sono stato costretto ad inseguire costantemente le mutazioni di una professione perennemente sull'orlo di una crisi d'identità: il mio posto fisso che non c'era, mi obbligava a non sedermi mai, pena la scomparsa. Mi sono perfino concesso il lusso di crearmi un mio seguito, che mi legge via internet, sul blog. Tra un posto fesso e l'altro, ho pure messo insieme, finora, una ventina di libri, tra editi e da pubblicare. Naturalmente, ho anche attraversato tante collaborazioni sciolte, come succede ai gatti randagi: ma su queste non ho niente da dire, i patti erano chiari, vincolo non c'era. I veri vincoli stavano altrove, e il mio vero posto fisso è stato casa mia. Con le catene che arrivavano sino a redazioni vicine, così lontane. Io racconto me stesso, la storia minima di uno che non si è fatto mancare niente, e le colpe sono anzitutto mie: non bisognerebbe mai permettere ad una passione di tenerti in ostaggio, la gioventù dura il tempo di un'illusione. E poi, lo ammetto, avevo un carattere orgoglioso. E nessuno mi ha offerto un dito. Proprio nessuno. Sicuramente non lo meritavo, ma non vedo in giro tanti fuoriclasse: di leccaculi sì, un'epidemia. 
Adesso per me è tardi per sperare in qualsiasi futuro. Ma anche senza fare il giornalista corsaro, ci sono milioni di vicende che ricalcano questa. Vicende di posti fissi inesistenti, ma tremendamente incatenati a se stessi. Allora?

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