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CHEAP WINE – BASED ON LIES


CHEAP WINE – BASED ON LIES
Un altro disco dei Cheap Wine, ed è un altro bel disco. Suonato anche meglio di prima, con maggiore varietà stilistica all'interno del genere prediletto, il rock dei lunghi spazi, delle lunghe distanze, dell'immaginario americano di frontiera. Qui affiorano momenti che sfiorano il barrel house e perfino la ballata decadente, c'è un uso più incisivo delle tastiere, che tra le mani di Alessio Raffaelli diventano più sostanza che abbellimento, mentre la sempre magistrale chitarra di Michele Diamantini non fa un passo indietro ma si fa più matura, più consapevole, asciuga qualcosa, alterna passaggi da protagonista assoluta ad altri al servizio delle composizioni. Un disco più complicato, più sofferto che in passato perché autobiografico fino alla spietatezza, che è la cosa che più ci piace. Le liriche di Marco Diamantini parlano senza infingimenti, a dispetto del titolo, di fallimenti: di chi non ce la fa, proprio non ce la fa ad andare avanti, non ce la fa più, in alcun modo. E li conosciamo quei fallimenti, sono i nostri, sono quello che ci resta, sono loro che custodiamo come i nostri figli. Così, il disco finisce per diventare polemico e politico come non mai, sia pure sotto il registro poetico, immaginifico anziché (sospiro di sollievo) direttamente “impegnato” o militante: se sei un musicista, canti, suoni: non rompi i coglioni con i messaggi. I Cheap Wine musicisti restano, e ci consegnano un album “basato sulle menzogne” ma, proprio per questo, di totale sincerità: raccontano la precarietà, il dolore, la sopraffazione come legge naturale, ma una legge che non premia il più forte quanto il più iniquo, e allora non è più legge naturale ma sociale, di una società dissociata e incomprensibile. Raccontano quello che vivono, che vedono e questa, amici miei, questa è già una impresa. Perché è sempre l'Ecce Homo, e bisogna provare, per scopire come si esce lacerati dal racconto della propri fatica. È come morire due volte. Un disco dove gli spazi cambiano, non più quelli degli sconfinati orizzonti americani, ma altri, interiori, desolati. Altrettanto sconfinati, perché vie di uscita non se ne vedono. Eppure loro sanno trarne materia per una confessione che diventa musica, e che musica. E che artwork. Affidato a Serena Riglietti, artista nel suo campo, il disco propone una veste intrigante, curatissima, come, forse, ormai solo le autoproduzioni possono permettersi. Eccoli qua i Cheap Wine: per favore, non dite che sono tornati: loro in 15 anni non sono mai andati via. Sono semplicemente di quelli che non mollano. Che restano. E, cambiando, restano loro stessi. Per fortuna.

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