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OGNI VIA UN RICORDO (e una canzone)


Se ritorno nei posti dove ho più sofferto non ritrovo sofferenza ma stille, acuminate e dolci, momenti sbiaditi e distratti, frammenti di me che ancora rimbalzano prigionieri. I ricordi non sono uniformi, hanno la forma delle strade, ogni via un ricordo. Casabianca, il non luogo dove ho speso sedici anni di niente: la via dove abitavo mi ricorda le corse trafelate per rientrare a scrivere una cronaca di furia sull'ennesimo delitto, spesso storie atroci. Il lungomare è solo i dischi di Renato Zero, che aspettavo, che ascoltavo già nell'altra vita e riascoltavo per riempire quel vuoto di vita, di tempo, di me. L'altra strada, le feste per i Mondiali del 1982, l'allegria senza freni, e sì che è quella dove abitava mio cugino Daniele, che era un po' troppo buono per questo mondo e una sera l'hanno trovato che galleggiava, addormentato nel mare.
Vimodrone, vicino Milano: dove c'era la disgraziata aziendina di mio padre stanno, in condominio, un veterinario e un colorificio, ma io ricordo tutta quell'esplosione di vita, di entusiasmo, di confusione, di sigarette del mio vecchio, che cambiava una macchina l'anno e non per sfizio ma perché, consumandosi, le consumava, spegneva le sigarette direttamente sul tappetino e intanto un'altra ne brillava; aveva montato un interruttore a filo direttamente sulla cloche, così poteva cambiare canale della radio mentre brandiva il cambio. Una volta rimasi un'ora ad aspettarlo in macchina, non usciva mai e dalla radio venne fuori “La vita è adesso” di Baglioni ed io per la prima volta mi sentii vecchio. Avevo 16 anni.
Carugate, altro incantesimo, altro luogo del mai. Brutta, orrenda Carugate perennemente immersa nella nebbia, nel sole colmo di zanzare in estate, e sul ciglio della strada maledetta che portava ai laghi, eccoci ancora, mia madre ed io, abbiamo “rubato” un carrello del Carrefour pieno di spesa, per non doverlo vuotare, ma sul ciglio m'è sfuggito di mano, s'è ribaltato scaricando tutta la spesa nel fosso e mia madre s'è lasciata andare a una risata disperata, isterica, degenerata in una pisciata addosso; rido anch'io, ma siccome percepisco il momento, quello mio è un pianto travestito da risata. C'erano i Police, “Ghost in the Machine”, ma non lo rimembro volentieri.
Via Teodosio, dove sono nato, ma mi ricordo solo pomeriggi di pioggia a capo scoperto, col mio amico Cesare a battere i bar uno per uno per cercare “i bottiglini”, quei mignon che va di moda collezionare finché ne hai una distilleria e non sai più dove metterli e non sai cosa fartene. Mi martella il cervello “Music”, di John Miles, chissà chi la ricorda.
Via Porpora, dove sono cresciuto e col mio amico Tony passavamo le giornate a prendere per il culo tutti i negozianti fin quasi a piazza Loreto, tutti li conoscevamo, uno per uno. Non ce n'è rimasto uno, solo cinesi adesso, cinesi e marocchini, la prima ad andarsene fu la panettiera che somigliava a Siusy Bladi e un bel giorno trovarono la saracinesca chiusa e lei e il marito erano spariti e non se ne seppe più niente, pare fossero pieni di debiti e chissà perché mi tornano nelle orecchie i dischi di Lucio Dalla.
Via Ampére, dove andavo a judo, in un posto dove c'impastavano contro una colonna proprio in mezzo alla “palestra”, poi ci hanno fatto un bar, figuratevi. Ma a me piaceva uscire, dopo, le ossa ancora indolenzite, imbruniva e mi guardavo intorno in quella piscina di verde sopra di me, che portava a Città Studi, la zona più bella di Milano, la più bella del mondo coi suoi viali infiniti, i suoi palazzi nobili, la sua irresistibile malinconia che mi contagiava da bambino, per mano a mia madre. Vivaldi, le Quattro Stagioni, e una gran voglia allora di abbracciarla, adesso di urlare.
Viale Brianza, dove vado a scuola ogni mattina, cupo di pensieri, ma ci vuol poco a scioglierli in cazzate, in ridere, sul sagrato di via Beroldo dove c'è il liceo, e mi ricordo il mio amico Nilo “Ugo”, sempre insieme, e questo mi ricorda il suo balcone di via Petrocchi, dentro un condominio gigantesco e caldo come un alveare, e questo mi riporta il disco “Breakfast in America” dei Supertramp che piaceva moltissimo a tutti e due.
Viale Romagna, nella casa della Barbara Borsani dove facevano certe feste che erano più baccanali, mai una volta da non uscirne completamente ubriachi, e nei vapori ancora ritrovo confusi echi di Queen, di Rolling Stones, di Clash ma pure di svariati gruppi punk, i Ramones, gli Anti Pasti, gli Uk Subs, un vinile con uno scheletro psichedelico in copertina, Paolone Margherit ci viveva in simbiosi, era diventata una sua protesi quel disco che terminava, mi ricordo, con un rutto.
Lambrate, piazza Gobetti. Il profumo del colore dei fiori del chiosco, di quello dei giornali all'edicola. Piazza Gobetti accesa di piante malate e malfamata di ragazzi più duri di me, più feroci ma ci vado lo stesso a fare le partitelle e mi sento il campione che non sarò mai. Via Monte Nevoso, squallida, sporca, così eccitante e bella, pare una via di terroristi e lo è, e per me resterà sempre quella strada dove amavo una ragazzina che non mi filava, che mi “tradiva” con uno troppo più grande di me, uno con la macchina, un mascalzone che se la faceva ancora bambina, e noi tutti lì, coi motorini, e ci sono io che già mentalmente prendo appunti per libri che avrei scritto trenta, quarant'anni dopo. Libri sul terrorismo, su quel tempo che non capivo allora, e che tempo di spiegarmi oggi. E cascate di Lucio Battisti, Umberto Tozzi, e tante canzoni sparse. Era sempre estate.
Via Carpi, la via di casa mia. Qui solo una gran corsa, lunga, infinita, come infinita era la felicità: un bambino fragile, la magliettina a righe, i sandali di stoffa, corre, corre, non sarà mai uno sportivo, a scuola va meno forte degli altri ma intanto corre, corre come il vento e la gente lo guarda, lui corre, corre contando le piante, i negozi, le case, quella vita che sente sua, quell'eternità che sente sua, corre e non si ferma fin quando non è arrivato davanti alla sua portineria. Ansima. Ansima felicità.

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