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PERCHE' HOUSE


Ho iniziato a seguire “House” fin dalla prima serie, durante la quale ogni speranza era concentrata sull’happy end con la dottoressa Camerun. Capito che il concetto di lieto fine è sempre parziale, riguarda cioè il paziente guarito nel fisico (talvolta sconvolto/capovolto anche nel pensiero), ho visto tutte le puntate fino all’ultimo episodio conclusivo.

Perché si segue una serie simile? Alcuni sono estasiati dalla costruzione dei personaggi, delle scene, tanto da seguirla in maniera scientifica e si fermano all’empirismo televisivo stravolto dall’innovativa scrittura. Non credo poi molto all’idea che si possa seguire una serie simile per scopiazzare le battute o il modo di fare di House e poi applicarlo nella realtà. Sarebbe da idioti. Altri non la guardano proprio perché non la sentono, vogliono tornare a casa e vedere qualcosa di sollevante rispetto a ciò che si lascia fuori dalla porta d’ingresso.

Per quanto mi riguarda, il motivo che mi ha condotto a seguirla fino in fondo è un altro tipo di consolazione, quella di uno specchio, della riconoscibilità o meglio della comprensione. In molte puntate è successo che ci fosse quell’uscita, quella frase, quella vicenda che diventava una sorta di stampella o meglio di bastone, come quello del protagonista, sul quale mi potevo appoggiare. “La vita non ti dà quel che meriti, ti dà semplicemente quello che ti dà”. E mille altre come questa che se non spiegano, almeno consolano. Ma non di quella commiserazione bassa e remissiva di fronte all’Onnipotenza non svelata; consolano forse nell’accettazione dell’evidenza senza un principio di causa ed effetto e senza una merito/colpa demandata a qualcun altro.

La genialità di House non è ripetibile, il suo modo non permette copia. E’ inimitabile, non come complimento iperbolico, ma come impossibilità di replica.

E poi c’è la puntata doppia della sesta seria, il suo inizio. Il re è nudo, spezzato, ribelle, fragile. A suo modo geniale anche in manicomio, a suo modo grondante di una sensibilità più amorosa e caritatevole di qualsiasi opera pia. A suo modo in analisi con sé stesso attraverso gli altri. E’ imbarazzante ammetterlo, ma quella puntata è un viaggio tanto catartico quanto lacrimoso da essere un lusso che ogni tanto mi concedo di nuovo.

Uno come House non è invidiabile, perché il peso di quella vita è un macigno che schiaccia qualsiasi speranza di serenità, se proprio si vuole escludere la retorica della felicità. L’unica cosa che si può apprendere è la fierezza di quello che si è (ammesso che la natura sia così illuminata da permettere orgoglio e non stupidità), la schiettezza bruciante ogni forma di socialità, la geniale perspicacia che va oltre ogni fermo e oltre il riposo del pensiero.

“La vita è dolore”. Di questo libro ammetto che non mi convince il titolo, abituata forse a una maggiore neutralità, ti aspetti che un titolo del genere abbia dietro un testo che non delude le aspettative di quel dolore annunciato. Come chi torna a casa la sera e non vuole più avere brutte notizie, allo stesso modo, sai già che approcciando un simile testo non eluderai la promessa annunciata. Non è neanche facile spiegare a chi non ha seguito quella serie come possa esserci un libro che parla di un personaggio televisivo. O meglio, come si possa partire da quello per costruire un libro.

Questo testo è veloce, non permette di rimanere indietro. E’ il potenziale canovaccio di una trattazione che potrebbe essere estesa, allargata a molto altro. Conciso, tagliato, asciutto. Ti inchioda lì, pagina dopo pagina. Come si possa partire da House per affrontare il tema della dignità del dolore, è difficile da spiegare anche se è quello che accade. Per buona sua metà ed oltre è un’esegesi storico-filosofica del dolore, raccontata a partire dalla scrittura di una serie televisiva. In queste parti, si ripete in qualche modo il “miracolo” della consolazione di quel bastone di House. Il tuo dolore che è esperienza comune, o particolarmente fortunata del vivere, ritrova una sorta di spina dorsale, di sostegno, di pensiero che sazia rispetto al peso della presenza stessa del dolore. Allo stesso modo di quel “la vita non ti dà quel che meriti, ti dà semplicemente quello che ti dà”, il dolore qui raccontato è semplicemente vita. 
Antonella, Modena 

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