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LA VITA DI CHI MUORE


Morire nei giorni di festa è un dispetto da carogne, da artisti, da disadattati. Lasciar lì il posto vuoto è l'ultimo sberleffo da giullari, da cantastorie rovinati e messi da parte e non c'è dubbio che questi due lo fossero, quasi dimenticati, senza un contratto da anni, senza ingaggi, costretti a sopravvivere, a certe corvées non alla loro altezza, infine a farsi ricordare sparendo insieme con le visioni di anni, di luoghi catturati nei solchi dei loro dischi e dei loro giorni. Uno milanese, nervoso, isterico; l'altro romano, indolente, lazzarone; uno di sinistra, l'altro di destra; uno umanissimo medico, l'altro simpatica canaglia; uno con i malati, l'altro coi delinquenti. Ma a tutti e due bastava un pugno di parole sparpagliate, cucite dal filo di una fisarmonica ed eccolo lì il blues all'italiana, fatto di case di ringhiera e di borgate, di malavita e galanteria, di ombrelli e fiori nel fango, di nobili e disperati, di fabbriche spietate per chi ci lavorava e fine settimana da incubo per chi ci evadeva, fuggiva via dal lavoro ingrato e logorante per poi sorprendersi a rimpiangerlo. Bastava una fisarmonica, una storia di parole aspre e desolate ed eccolo lì quel blues bianco, italiano, provinciale se vuoi, che fa star male, che mette l'angoscia peggio dei vortici dei filosofi, perché è più facile specchiarcisi, riconoscerla, cascarci dentro a quella malinconia da due soldi.
Parole italiane. Romane, milanesi, ma italiane. Parole lunghe, che inzeppavano versi che riempivano frasi che farcivano discorsi che gonfiavano canzoni che non erano canzoni, erano frammenti di storie, erano pezzi di vita e alla vita – alla vita, non alle sue proiezioni, non alle sue elucubrazioni – va resa tutta la dignità della vita, e la dignità della vita è fatta di sconfitta, di sincerità, di verità nel dolore, in quell'angoscia che chiunque può riconoscere perché è anche la sua. E così questi due pianeti diversi, uno romano, l'altro milanese, cantavano il loro blues di fisarmonica, poetico e crudo, senza speranza, senza lieto fine, e mettevano paura, e sapevano come farla, perché avevano il coraggio di guardare in faccia la realtà e di cantarla per quella che era. La realtà. Che non è fatta di gesti eroici e di cadute tragiche, ma di matti non capiti, di barboni che muoiono per una sigaretta, di derelitti che si vendono la radio, di ramini in tre, di fine settimana a fare a coltellate in autostrada, di donne che non capiscono e di vita che non si capisce. Solo vita, piena di vuoto, piena di squallore, piena di ingiustizia senza redenzione come può esserla quella di chi vuole andare allo zoo e non ce lo lasciano andare, e tutto il resto è noia.

Commenti

  1. ho visto un 'intervista a califano proprio ieri sera e mi ha sorpreso sentirlo dire che non sa suonare uno strumento,dice neanche pochi semplici accordi basilari ,suona solo ,con un dito,l'eventuale melodia che gli può venir in mente.era quindi principalmente un paroliere,ne sai qualcosa ?

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  2. I parolieri e i poeti suonano con le parole

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