Ma
se ci passo adesso, al Carducci, di notte, quando nessuno può
sapere, come un fantasma che trascina le catene della sua nostalgia,
non lo riconosco più, è un altro istituto, è un'altra scuola e non
perché han messo la pensilina all'ingresso, completato l'ala dove
c'era l'aula magna, sono i miei occhi a non vederlo più com'era,
sono i miei occhi a vedere ancora quello che c'era. Un blocco di
cemento appena rinfrescato, di quella modernità velleitaria dei
primi anni Ottanta. Con le corde nel cortile di dietro, che avevamo
messo noi studenti degeneri, stufi di rischiare sempre di volar di
sotto nelle lunghe ore di ginnastica o di religione, come dice il
Maestro Battiato, che invece passavamo a giocare alla palletta nel
sovrano disprezzo dell'orario didattico.
Adesso
sembra patetico ammetterlo, sembra cretino ma non c'è volta che io,
esule da trent'anni, non passi da via Beroldo, di notte, ogni volta,
ogni volta che torno. Scendo. Mi metto ad ascoltare i fantasmi di me
e dei miei rimasti ad aleggiare sulla spianata, dentro e fuori, nei
corridoi l'immagino, nelle aule me li indovino. “I miei”, perché
quella gente, quei giovani adulti erano parte di me come si può
esserlo a sedici, a diciott'anni, magari odiandosi ma senza poter
fare a meno gli uni degli altri.
Ed
eravamo crudeli. Competitivi e crudeli. Bugiardi e invidiosi e
crudeli. Ragazzi, insomma. Ma se ci penso, ricordo cose alle quali
ancora stento a credere. Si viveva come giovani adulti, con le stesse
perversioni, disperati e scatenati come uomini e donne acerbi e già
un po' corrosi dalla vita. Non racconterò le troppe feste finite
come finivano, nell'ipocrisia di quei borghesi ancora piccoli che
quanto a depravazione non avevano niente da invidiare a una borgata.
Non racconterò quello che si vedeva, che circolava, ogni tanto anche
il sangue. Preferisco ascoltare le risate, perché in quegli anni di
liceo, duri, faticosi al limite dello sfinimento, non ci fu giorno
che io non tornassi a casa coi crampi allo stomaco dal ridere. Ancora
ho gli incubi, ogni tanto: eccomi, scendo a piazza Loreto, imbocco il
viale Brianza a testa bassa, verso il patibolo di una interrogazione
che mi aspetta, ed alla quale non sono preparato. Fisica o chimica,
di solito. Ma anche filosofia, che non capivo, che non amavo, e poi,
uscito dal liceo avrei passato il resto della vita ad inseguirla a
ritroso. Il liceo classico non è una scuola per liceali, per
giovani, bisognerebbe farla dopo l'università, prima ti perdi tutto
sia che ti ammazzi sui libri sia che te ne fotti altamente e pensi
solo a fare il coglione. Di solito capitavano entrambe le cose, uno
studio fottuto e disperatissimo per tutto il ginnasio e poi il
crollo, il rompete le righe nella scoperta del sesso, dell'alcool,
delle droghe, della gioia disperata di vivere. E arrivavi, se non eri
proprio dotato per capire senza studiare, arrivavi alla “matura”
sui gomiti, racimolando un quaranta del cazzo, più per pietà della
commissione che per effettivi meriti.
Ma
io preferisco ascoltare le risate. Le filastrocche blasfeme ed
insultanti, di Dio e dei professori e dei presidi che si
susseguivano, ed ai quali avremmo potuto dire, come i giornalisti ai
politici: ci saremo ancora quando voi sarete passati. Speriamo di no,
ma il fatto è che di presidi se ne vedevano passare mentre si
cresceva, sbilenchi, pieni di allegra disperazione, di fanatismo e di
un certo orgoglio per quel liceo così duro, così gonfio di storia,
così allegro. Così nostro. Preferisco le risate, senza spiegare
perché, visto che mi toccherebbe provare qualche imbarazzo. No, non
per le bravate, ma per il sospetto, insinuante, mai sconfitto, d'aver
perso a furia di cazzate gli anni migliori, i più formativi, e di
averli poi inseguiti invano, a ritroso, per sempre. Ma come si poteva
fare?
Non
c'è notte, ogni volta che torno, per salvarmi dal richiamo, e
trascino le mie catene qui davanti e vedo sfilare tutte le ragazzine
che non ho avuto, e che mi parevan donne ed erano bambine e non le
voglio rivedere adesso e non voglio mi rivedano adesso, non c'è
rivalsa, non c'è niente, niente che il ricordo, sfocato, malato,
distorto, romantico, retorico, puttanesco. Non c'è notte che io non
ascolti quelle canzoni da ubriachi, da giovani pirati che sbraitavamo
alla fine della festa dei Cinquant'anni, tutti bevuti, stravolti, ed
era il nostro addio, che di lì a poco ci saremmo diplomati e in
quella notte di bottiglie vuote e cartacce sulla spianata del liceo,
capivamo che non era già più nostro, il mostro che sfornava classe
dirigente, o così si voleva, rigettava la nostra carne non più
tenera, era famelico di nuova carne, giovane, fresca, vergine. Perché
questo è un liceo, una fabbrica di esperienza, di violenza che ti
prende bambino e ti risputa uomo, o quasi. E noi latravano alla luna,
sporchi, bevuti e angosciati, e non ci importava degli esami che
arrivavano, anzi avremmo voluto, nel segreto del nostro cuore,
sbagliarli tutti, farci bocciare e restare un altro anno di più, a
ridere e ad entrare ad occhi bassi incontro al patibolo di un compito
in classe. Tutto, solo per quelle partite al pallone. Per quella gita
in Grecia. Per sentire l'ennesimo insulto affettuoso di quel kapò
che era “il Minari”, il prof di ginnastica che voleva fare dei
molluschi che eravamo dei “vir”, degli “armati”, fino
all'acme: “dei cartucciani”, con la “t” al colmo della
retorica. Per vedere se quella stronza finalmente ci sarebbe stata.
Per fare un anno, uno solo, ma davvero da Grande, essere chi non
avevamo mai saputo essere. Cullati dall'illusione che tutto fosse
possibile, perfino essere altri da noi stessi, non essere noi stessi
con le nostre insicurezze liceali, le nostre turbe, i nostri
complessi, le bugie e le crudeltà e le tenerezze sciocche da
scolpire sui diari per l'eternità.
Le
ho buttate, le mie agende. Un giorno le ho prese e le ho buttate, per
troppo amore. Faceva così male sfogliarle, rileggerle ogni volta.
Ritrovarci le calligrafie degli amati odiati compagni. Così storte,
sempre più infantili ad ogni anno che passava. Quelle calligrafie,
quelle battute, quei disegnini erano un termometro nel culo del mio
futuro e alla fine ho preferito spezzarlo, perché il futuro era
diventato passato.
Ma
il fantasma che sono non può salvarsi. Non può fingere di non
sentire il richiamo. Ed io torno, e foss'anche per poche ore, è là
che mi spingo. Mi fermo. Scendo. Mi metto ad ascoltare. Tutti gli
altri fantasmi mi raggiungono, non ne manca uno. Insegnanti e
compagni. Con gli stessi vestiti, gli stessi motorini e gli stessi
occhi. Perché c'è un momento, uno solo nella vita, quando si è
eterni, e, da qualsiasi nonluogo si torni, è avvolti in quel momento
che se mai torneremo. E lì, in quel liceo che mi risputava uomo,
lasciandomi sgomento, non attrezzato per la vita, in quel liceo dove
tornavo anche d'agosto, ritrovando altri della tribù seduti a
fumare, ad aspettare che la dolce galera si riaprisse ancora, lì in
quel liceo dove la cultura mi passava davanti, mi sfiorava e non
riuscivo a fermarla, ma mi piagava come schizzi d'acido nell'anima,
solo lì io ho conosciuto qualcosa che si avvicinasse alla farsa
della felicità. E se ci penso ancora rido, rido fino alle lacrime,
da solo, fantasma in catene, ladro nella notte, e non saprei più
dire se sono lacrime di gioia o se sto ridendo di dolore.
Maturità 1983, sez. C
paradosso dei paradossi come dici tu il liceo classico andrebbe "rifatto" in età matura...non è scuola da adolescenti...a quell'età non si è in grado di capire la profondità e la complessità di quello che viene trasmesso,gli ormoni e la voglia di vivere obnubilano la mente...le altre scuole non sono così...
RispondiEliminaE a volte i postumi restano per tutta la vita
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