Il
Conte Lello Mascetti è una figura tragica, l'irresponsabilità della
gioia, l'egoismo senza feritoie. Eppure riesce simpatico, persino
irresistibile, avendo la faccia da mascalzone umanissimo di Ugo
Tognazzi. È l'assurdo della vita, quel “ridere, ridere sempre”
che nasconde l'angoscia, uno che sa di essere un farabutto, non se lo
nasconde, non se ne nasconde la colpa e i rimorsi, che ricaccia
indietro ma che pure ci sono, si fanno sentire. Uno capace di
chiudere in una valigia una contorsionista, ma pure di schiantarsi in
lacrime all'impietoso ritratto che di lui fa un bimbetto di pochi
anni, il figlio del Perozzi, che lui tiene a pensione in un
sottoscala: “Io dico che codesto Conte o è un gran bugiardo, o s'è
ridotto proprio come un disperato”. E lui, il Mascetti, invece di
urlare, di batterlo, lo guarda, fisso, grave, perfino ammirato:
“Dieci e lode”. Una scena che solo Tognazzi poteva fare, perché
c'era molto di lui nel Conte che brindava alla vita anche con un
calice rotto. È il Padre di tutti i rapper, blinda la sbiliguda
della supercazzora brematurata con lo scappellamento a destra (e la
supercazzora vuole la “r”, come da sceneggiatura, da cui poi fu
tratto un libro, e che sul punto era rigorosissima), ed è, sempre da
quel libro, uno con un talento rarissimo e sciagurato: il sapere
vedere le ali d'una farfalla che sbattono librandosi dal buco della
disperazione più tetra. Il Conte Lello Mascetti è uno scopatore
compulsivo, s'infila perfino il “rigatino”, la finta divisa da
cameriere dell'hotel di lusso, pur di tornare per una settimana a
fare la vita del Conte autentico, che era stato - “Rodolfo: il mio
Ferrari!”, ed ha un modo inconfondibile di sistemare i casini: “Non
vi preoccupate ragazzi, fra tre giorni m'ammazzo”. Sempre con
quella faccia da mascalzone irresistibile. Tanto poi è chiaro che
non s'ammazza e invece si dà alla latitanza. Ed è un infantile
crudele, che non rinuncia a prendere per il culo il prossimo, a
rompergli i coglioni, a rovinargli la vita o almeno la faccia con un
getto d'inchiostro, neppure da paralitico, con “Quella majala della
emi (la emiparesi)” che lo limita, lo menoma ma non gli vieta di
trombare: tutte quelle che può, ma non “quella lì”, la moglie,
la donnetta secca e rifinita come il suo nome: Alice. Ma il Lello è
pure il nobile che, ritrovandosi una figlia messa incinta
(“Ingallata”, dice il suo degno amico, chirurgo Sassaroli) da un
improponibile bestione, non esita un solo istante: “Il bambino lo
adotto io, si chiamerà Raffaello, come me; Raffaello Mascetti”. E
in quello slancio non si capisce se c'è più coraggio, incoscienza o
indifferenza, tanto è chiaro che poi i costi supplementari
dell'incarico non li pagherà lui, combinato come sta.
Che
senso ha, che nell'Aula sorda e grigia il nome del Conte Mascetti
risuoni sulle labbra senza ironia, forse senza memoria, della
presidente della Camera, una di quelle invasate pericolose, senza
alcun senso dell'umorismo, che partono per salvare il mondo e
finiscono a leggere schede di vecchi barbogi, grigissimi, uno dei
quali dovrà finire a rappresentare quelle come lei, il Potere che
sceglie se stesso, che nomina il Potere?
Era
una goliardata, quel voto per il Mascetti? Era disprezzo per il
Parlamento, per lo Stato, per i suoi cerimoniali ipocriti? Era
semplicemente cretineria? Perché una figura poderosamente tragica
come il Conte Mascetti non la spendi invano, devi darle un
significato, specialmente in un contesto grottesco, lugubre come
l'elezione del Capo dello Stato, questa sfilata tremolante di vecchi,
di nati vecchi, di inciuci viventi e ormai cadenti, che eleggono uno
di loro, vecchissimo, sinistro nei suoi dentoni, negli occhi acquosi,
nella lucidità che già comincia a sfarfallare. Certamente un
alienato, un irresponsabile, un pazzo ma non allegro e tragico,
sventato e intelligente come il Lello. Che agli amici chiedeva tutto
ma li considerava parte di sé, al punto da farsi venire un ictus se
solo se ne sentiva emarginato. Un italiano, un italiano vero nei
migliori difetti e nelle peggiori qualità. Uno sciagurato,
miserabile, fallito, ma libero come il vento.
Non
certo uno che ha passato la vita a coprirsi di polvere istituzionale,
mai volo di farfalla e alla fine, come un vecchio calabrone, s'è
posato lì, dopo un ultimo volo pesante, rantolante. Sai che
risultato. Il Conte Mascetti avrebbe trasformato quell'Aula
deprimente in un gioioso casino, ma non al modo del Cavalier
Berlusconi, che ha gusti plebei. Lello invece ha gusti popolani, cosa
leggermente ma decisamente diversa, e quando con gli amici fa il
guardone sui fondoschiena proletari delle operaie che escono dalla
fabbrica, inventa subito un rap: “Culo alto/Ci fo un salto”.
Ecco,
probabilmente chi l'ha votato nel corso dell'elezione del Capo dello
Stato voleva suggerire proprio questo, una frustrazione alla Montale,
che loro, tutti loro, potevano giusto votare quello che non erano,
quello che non volevano, ma che tanto alla fine si sarebbero messi
d'accordo, perché il Presidente aveva pur da essere uno dei loro, un
Guardiano dei loro intrighi e intrugli. Non uno che se ne fotteva di
tutto e di tutti ma almeno non faceva sconti a niente e nessuno a
cominciare da se stesso, e si godeva un volo di farfalla come fosse
stata l'ultima meraviglia sulla terra.
io e tuo fratello abbiamo sentito anche un voto a Rosso Barbera: ma non siamo riusciti a capire se è stata un'allucinazione uditiva da ubriaconi (aspiranti tali) o la pure realtà, che obiettivamente invoglia all'alcolismo
RispondiEliminal'ho pensato anch'io, il nome di mascetti non lo usi invano.
RispondiEliminanon è un nome da gettar via come rocco siffredi, o cocuzza o la loren o valeria marini o gli altri (ma trapattoni lo salvo da questo folle elenco).
mi viene un groppo in gola quando penso all'ultima scena dell'atto II, la corsa in carrozzella, mascetti disperato che non riesce a comandare la macchinetta e il suo corpo come vorrebbe, e gli amici che dagli spalti lo incitano e tifano per lui, con le lacrime agli occhi.
quella è poesia, è vita.quanto di più lontano ci sia dal nostro parlamento.
vit
Sì, quella scena è immensa
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