Un momento che avrei
voluto inserire nel libro sui gatti. Ne ho due, diversissimi tra
loro. Nerino è cresciuto con noi e non mi pare neanche un felino,
quanto una mia appendice fisica (o sono io ad essere un suo sgraziato
prolungamento?). Camillo l'abbiamo intercettato che aveva già un
anno, dopo che per tutta la sua vita era stato maltrattato, tenuto su
un balcone al gelo della neve o alla fornace dell'estate, e,
sospetto, torturato. Anche lui s'è abituato alla sua nuova
famigliola, ma, per quanti sforzi d'amore ci abbiamo messo, gli è
rimasta una indicibile diffidenza, la rassegnazione ferita nello
sguardo. È un gatto buono, si lascia far tutto ma difficilmente
prende iniziative, interagisce, manifesta felicità. È un gatto
abituato a subire, ad aspettarsi il peggio. Stamattina ero solo in
casa, tentavo di sbrigare un po' di faccende domestiche da sabato
mattina, i gatti pisolavano sui braccioli del divanetto in sala e,
dal mio studiolo, veniva la musica del disco nuovo di Renato Zero. A
un certo punto passa la meravigliosa “Un'apertura d'ali”, quella
col testo postumo di Bigazzi, e cosa vedo? Camillo che caracolla, col
quel suo corpo di missile un po' obeso, fino allo stereo, e lì si
accuccia, e si volta, e mi guarda. Ed io non potrei avere le parole
di un poema per scrivere cosa stava passando in quello sguardo, e
cosa nel mio cuore sconvolto. Mi riprendo, scendo da
mia madre e anche qui c'è una gatta, una che proprio randagia non ci
sapeva stare e alla fine ci siamo decisi. Per dirla felice è ancora
presto, resta frastornata, se entra qualcuno corre a sparire, sotto
al letto, dietro il divano. Ma io mi sono seduto al piano, e suonavo
ancora quel brano, e mi sono sentito un'apertura d'occhi addosso, e
potevo anche fare a meno di voltarmi ma mi sono voltato ed erano lì,
la stessa espressione d'immenso, lo stesso sgomento verticale in me. Faccio un'ultima
prova, proprio mentre preparo queste righe. Mando la canzone, e
questa volta è Nerino a saltare sul tavolo. Si mette dietro al
computer, si ferma come una statua, le orecchie tese a captare
un'onda d'infinito. Ancora quegli occhi. Mi arrendo e mi metto a
piangere. Forse ascoltando questa poesia in
musica si capiscono tante più cose, e non servono altre parole, e
anche voi sentirete una strana, dolente felicità che da qualche
parte sale, scrolla le sue ali, vola via.
ahahah, che bello!
RispondiEliminaFunzionasse anche con gli esseri umani...
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