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Occasioni come quella di ieri all'Urban Center di Milano, dove presentavamo il libro di Massimo Coco “Ricordare stanca”, mi fanno capire che si può e si deve insistere ancora su una controrevisione della storia del terrorismo. Massimo è, primato assai poco invidiabile, il figlio del primo giudice ucciso dalle Brigate Rosse, ormai trentasette anni fa a Genova. Ha scritto un libro per dire: io non dimentico, io non perdono. E in verità neppure potrebbe perdonare, visto che non ha mai saputo quale mano lo abbia privato, quindicenne, di un padre. Eravamo stati insieme a San Ginesio, ci siamo ritrovati a Milano. E una volta di più ho trovato sguardi partecipi ma sconcertati di fronte al nostro rigorismo, a quell'impertinente demistificare una storia che da più parti si vuole esaltante, drammatica, tragica in senso epico: e invece fu miseria senza grandezza, fu grottesca. Fu squallida, nei mille rivoli dell'opportunismo, della falsità, dell'ignoranza. Quanto al dovere del perdono, è assurdo in sé; anche Barbacetto ha speso parole chiare sulla improponibilità di una pretesa. Si avvertiva un senso quasi di catarsi nel pubblico, come da chi da troppo tempo aspettava di sentire parole nelle quali rispecchiarsi, parole senza paura di esporsi. Perché il fatto è che, ancora oggi, ammettere rancore verso chi lasciò tuo padre sull'asfalto, suscita fastidio; ancora oggi negare prospettiva di grandezza ad un periodo infame, suscita dispetto; chi usa il rasoio di Occam per sfrondare la parabola terroristica dei suoi falsi significati, passa immediatamente in fama di sospetto. Lui. Non chi ha addosso ombre di morti incolpevoli, e responsabilità di parole oscene. Per questo, bisogna insistere. Per questo bisogna revisionare un certo revisionismo inaccettabile. Fino a quando sentirò qualcuno, anche in alto loco, anche da uno sgabello istituzionale, salvarsi nel corner delle distinzioni, delle contestualizzazioni, delle riletture pelose, insisterò. Perché quello scantonare è ciò che poi spalanca la strada all'ennesima mistificazione. All'ennesimo equivoco di chi, quando muore un assassino, riempie i muri di scritte che ne vorrebbero celebrare l'ignobile eroismo.

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