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DA NON SCRIVERE


Quel bambino che non ha fatto in tempo a nascere. Quell'essere vivo, nato per morire, chiuso in una busta di cellofane, chiusa in una borsa, a tracolla della “madre”, che se n'è andata a prendere un aperitivo. Col bambino soffocato, morto mentre chiedeva vita. E lei parlava, sorseggiava un long drink. E poi, la sera, ha avuto un'emorragia, è andata all'ospedale, ha buttato il suo frutto in un secchio, passando. Chissà che viso aveva quel bambino morto nascendo. Un viso bello, tenero, come un gattino, bello come la vita. Che spinge, urla, chiede di essere e non ha altro senso, non si interroga, non si chiede dove esploderà, da quali mani verrà raccolta oppure soffocata. Io ho nella mente quel viso di bambino che non c'è, non c'è mai stato, e non dovrei scriverne, e non vorrei ma scriverne è l'unica cosa che non posso fare, anche se me ne viene una fatica, una stanchezza che cade nel torpore, nell'abbandono delle forze, nella rinuncia ad ogni reazione, gli occhi abbassati, la testa sul petto, le braccia chissà dove, due rami morti, sopraffatto, vinto al pensiero che nessun regista di nessun orrore può arrivare a concepire la naturalezza di una venticinquenne, madre per errore, madre per orrore, madre per un attimo.

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