Consumi
la tua mesta cena della domenica sera, una domenica plumbea, di una
pioggia fosca, che hai bucato solo per andare ad assistere tua madre
immobile a letto con un polso rotto dopo una caduta. E in televisione
trovi per l'ennesima volta l'affilato profilo nosferatesco di
Sallusti. È dura. A questo punto, o gli date l'ergastolo o gli date
la grazia, ma non se ne può più. Eppure il suo caso, come sta evolvendo normativamente e cioè in farsa, mi suscita ancora
qualche riflessione. Autobiografica, perché non c'è migliore
comprensione di un tatuaggio. Pochi giorni fa sono stato alla prima
udienza, subito abortita, per un processo che mi vede parte lesa,
contro la giornalista della Stampa Anna Masera, con la quale
condividevo l'assoluta sconoscenza, ma che, ispirata da chissà chi,
mi aveva pubblicamente definito una nullità, un imbroglione, un
codardo e una vergogna per wikipedia. Offese talmente gravi e
gratuite che il gip di Fermo, Sebastiano Amato, dopo averle lette ha
ordinato, caso raro, l'imputazione coattiva. So già che non otterrò
mai soddisfazione, la prescrizione incombe, la signora Masera scappa,
non si è mai presentata, adesso i suoi legali vogliono riportare la
causa per diffamazione aggravata a Torino, dove giocano in casa al
punto che, in istruttoria, la pm procedente aveva indagato su di me
anziché sull'indagata.
Cinque
anni fa, dalla parte del reo c'ero io. Inquisito da due procure,
prima Trani poi Roma, i cui magistrati sono andati in automatico dopo
la denuncia di uno squilibrato che mandava lettere al Mucchio dove ci
invitava a “pentirci per entrare nella salvezza di nostro Signore
Gesù Cristo e non fare la fine degli asini”. Mi incolpavano di
blasfemia contro il pontefice, per una copertina che richiamava un
articolo all'interno, firmato da me, nel quale non nominavo mai il
papa e me la prendevo con Veltroni. Prima volevano condannarmi come
grafico, io che no so neanche fare una “o” con un bicchiere; e al
Mucchio tutti avevano coperto la vera responsabile di quella
sciagurata copertina, l'allora direttore Max Stefani per primo, visto
che risultava essere una sua amica che lavora all'Espresso. Poi, in
seconda battuta, mi volevano rifilare un decreto penale di condanna,
senza processo, senza neppure sentirmi, come giornalista. Forse
perché mi chiamo “Del Papa”. In base ad una fattispecie di legge
già eliminata dalla Corte Costituzionale. Un delirio. Sono rimasto
in ballo tre anni, durante i quali mio padre (già irriso dalla signora come tenutario del ridicolo "doppio cognome" che mi ritrovo) ha fatto in tempo ad
ammalarsi e morire, anni difficili, scanditi dai continui inviti a presentarmi a
carabinieri, polizia, finanza, corpo forestale dello Stato, ancora
carabinieri, ancora polizia. Uno che ha fatto una strage ha meno
noie, ero diventato lo spasso di tutte le forze dell'Ordine del
Fermano, dove vivo. Alla fine sono andato io a Roma, a chiedere, anzi ad
urlare, di essere interrogato, dalla polizia giudiziara o meglio
ancora dal pm procedente. Mi hanno risposto che non c'era quel
giorno, ma io ho visto la porta del suo ufficio aprirsi e subito
richiudersi. Il fascicolo che mi riguardava era alto 300 pagine: ma
mia moglie si accorse, quasi con sgomento, che erano tutte fotocopie
dell'unico atto di sequestro di n. 3 copie del Mucchio a Trani. E le
sue memorie non erano mai state toccate. Intonse. Ho gridato in
segreteria di riferire a quel pubblico ministero che non è mai tardi
per imparare a leggere. Mi hanno risposto: “Vedrà che stavolta le
legge”.
Non
ho saputo più niente, la cosa è morta per consunzione naturale.
Volevano condannarmi come parte lesa, e volevano condannarmi come
indagato inesistente, in base a presupposti deliranti, quale grafico
che non aveva mai fatto nessuna copertina e poi giornalista che non
aveva mai scritto di ciò di cui lo si incolpava.
Dicano
quello che vogliono su Sallusti, ma io nella magistratura, in questa
magistratura, non crederò mai più. Non me lo si può chiedere.
Questione di tatuaggi. E io sono uno che i tribunali li frequenta da
22 anni (per lavoro), che non patisce la sindrome di Kafka, che ha
una moglie avvocato. Ma penso agli altri povericristi, che scrivano o
meno.
300 pagine dello stesso atto di sequestro ? Come Jack Nicholson in Shining ?
RispondiEliminaPiù o meno. Fotocopie di fotocopie di fotocopie, siccome la quantità a un certo punto diventa qualità
EliminaTanto, dopo, è così gratificante piangere sulla mancanza di risorse e sui tagli punitivi
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