L'annuncio
del mio prossimo libro, anzi ebook, ha suscitato un certo immediato
interesse, della qual cosa non posso che essere lieto (e
riconoscente). Allo stesso tempo, sono cominciate le richieste,
quando non le pretese, ora discrete, ora più pressanti, per un libro
di carta: perché la carta, il profumo, il tatto, eccetera, in un
rosario di nostalgie che spesso a me suonano come luoghi comuni.
Vorrei chiarire che quella del libro elettronico è una scelta ormai
compiuta. Motivata anche da uno stato di necessità, ma comunque una
scelta. Di editori ne ho avuti (pentendomene regolarmente) e, con un
lavoro del genere, sulla cui bontà mi sento di garantire, non avrei
grossi problemi a trovarne un altro. Il problema arriva subito dopo.
Perché l'editore-tipo, oggi, è in tale crisi che è già un
miracolo se riesce a stampare una tiratura; perché i libri poi non
basta metterli in vetrina, e nessuno però oggi ha i soldi per
promuoverli (e promuoverli vuol dire, spesso, corrompere i
giornalisti delle pagine culturali); perché vanno organizzati eventi
che nessuno organizza più (a me è capitato di dovermi finanziare
perfino un pernottamento o una cena: e allora un editore che ci sta a
fare?); perché i libri, oggi, non debbono disturbare nessuno e li si
pretende agiografici, specie nel caso delle popstar o dei campioni,
sui quali non si accettano critiche di sorta mentre sono molto
gradite le cazzate del tipo “gioca con la playstation” oppure le
misure del suo regale augello, che ovviamente è stato creato per
secernere miele purissimo; e così via. Se io voglio scrivere un
libro critico, ragionato, difficile, complesso, ben costruito (e non
rovinato dal primo ragazzino messo lì a fare l'editor), insomma un
lavoro che rispetti il lettore, sono obbligato a farmelo da solo.
E qui
il gioco si fa duro; ma neanche più tanto. Quando la tecnologia
digitale non era ancora evoluta come oggi, io dovevo dissanguarmi per
stampare un certo numero di copie, che poi mi intasavano il
ripostiglio; dovevo curare la distribuzione; dovevo curare la
spedizione, eccetera. Alla fine, funzionavo molto più come
supermercato - senza i mezzi di una casa editrice - che come
scrittore, o scrivente, o scrivano, o scribacchino. Oggi è diverso.
Io posso creare un libro digitale, renderlo disponibile quando voglio
(per esempio, un attimo dopo aver sentito il disco appena uscito di
Renato Zero), aggiornarlo come e quando credo, e, teoricamente,
offrirlo al mondo intero: che, al suo buon cuore, se lo può
procurare in un istante, senza nemmeno vestirsi per uscire. Un libro
cartaceo, che profuma di carta eccetera, sarei obbligato a farlo
pagare almeno 20 euro; in formato digitale posso restare sotto le 10:
se poi qualcuno non sa proprio resistere alla seduzione del foglio,
che comunque costa alberi, con un paio di euro supplementari, che in
ogni modo ha ammortizzato scegliendo l'ebook, può stamparselo e
rilegarselo in proprio, siccome in ogni casa non manca ormai una
piccola, attrezzata tipografia.
Ma
sarebbe superfluo. Garantisco. Oggi i vari kindle, kobo eccetera (le
tavolette per leggere i libri elettronici) sono di qualità
strepitosa e assicurano una esperienza entusiasmante: non è
possibile che giovani (o meno giovani) svegli, che studiano, che si
occupano di comunicazione e di nuovi media, non li conoscano, non li
maneggino. Per quanto mi riguarda, dopo essermi procurato un kindle
io leggo il doppio di prima; e – qui sta il punto – non in
alternativa, ma in aggiunta al formato tradizionale. Noi siamo ancora
così diacronici, così dialettici, così hegeliani, che ci riesce
difficile, se non impossibile, pensare in termini sintetici e
sincronici. Eppure, mai come in questo caso: provare per credere.
Ho
capito, che “Renato” ostenta sovrana ignoranza verso la
tecnologia e auspica un ritorno al citofono: se vuol essere, come
spesso gli accade, pedagogico, questa sua è una pedagogia sballata,
immatura. E non del tutto sincera. Lui può permetterselo, come tutti
i vip che dicono “Io non ho neanche il telefonino” ed hanno alle
spalle una struttura di comunicazione che somiglia ad una falange
armata: armata di telefonini, computer, i-phone e quant'altro. Del
resto, diffidare della tecnologia è cosa buona e giusta (lo insegno
anche io, nelle scuole). Rimuoverla, no: non ha senso, e condanna
all'arretratezza. È un lusso che non è dato ai comuni mortali,
questa è la prima stagione umana in cui le “macchine” non sono
prescindibili: senza saperle usare, non si esiste nel consorzio
sociale, nessuno ti cerca, nessuno ti offre un lavoro, nessuno puoi
raggiungere. Non l'ho fatto io questo mondo, ma non posso fingere che
così non sia. D'altra parte, il buono lo prendo dove c'è: il
mercato, agevolato dalle tecnologie di cui si nutre, sforna una
pletora di beni del tutto superflui. Ma se c'è una invenzione,
viceversa, felice e ottima, sta proprio in questi strumenti per
leggere i libri immateriali. Per questo, la storiella del citofono è
(naturalmente) un vezzo, “Renato” già una decina di anni fa si
vantava di avere “l'-ipod pieno di canzoni”, con lo smartphone ci
gira abbondantemente ed è sempre stato un pioniere delle moderne
tecniche di registrazione (e i suoi dischi oggi escono anche in
formato digitale). Ecco: per uno che scrive, come me, questi
strumenti sono l'equivalente delle moderne tecniche di registrazione
per un musicista. Sono un disgraziato che non ha mai avuto rendite di posizione,
garanzie, contratti: sono sempre stato obbligato a correre più
svelto degli altri, perché nessuno mi avrebbe mai dato una mano. E
oggi, faccio non di necessità virtù: ma di virtù necessità.
Non
sto promuovendo il mio trascurabile libretto, ve lo assicuro. Questo
è un discorso che va molto oltre, che tocca questioni generali e
allo stesso tempo cruciali. Non è un problema se i “cartivori”
snobberanno questo volume di luce, il problema sta nella coerenza: in
Italia, patria dei consumi superflui, dove tutti hanno 3
supercomputer da tasca (e li usano benissimo per fotografare, filmare
e “postare” “Renato” in rete, ove stazionano senza tregua), e li cambiano ad ogni
trimestre, il mercato dei libri elettronici sta ancora a livelli
preistorici; in Inghilterra, America e nel resto d'Europa si avvia a
superare quello dei libri fisici: hanno capito che conveniva, si sono
informati, hanno avuto la curiosità di tentare. Addirittura, un
formato traina l'altro, e si trascinano insieme. Qui, no. Qui io
conosco gente che si vanta di avere comperato tre o quattro edizioni
della stessa raccolta già uscita mille volte, “perché di Renato
bisogna avere tutto” (e gli sarebbe convenuto scaricarsela di
sbieco: l'elemosina ai ricchi, proprio non ha senso), spendendo il
triplo che per un kindle o simile. Ecco, questo non mi torna. Questo
acquistare quel che si ha già in modo compulsivo, feticistico,
rinunciando a qualcosa che può semplificare la vita. Di sicuro, l'ha
semplificata a me: io, oggi, sono molto più libero, più autonomo,
più in grado di offrire “opere” (dico per convenienza) senza
compromessi, insomma di fare del mio meglio, pensando sempre a chi mi
leggerà.
Ma
sono anche un po' stanchino, come diceva Forrest Gump, di dover
essere io, a quasi 50 anni, a far da locomotiva per gente che
potrebbe essere mia figlia. Spero che
nessuno abbia frainteso il senso di questa mia prolissa riflessione.
Non era autopromozione, era un momento di confronto, con la sincerità
di sempre.
Io sono un nostalgico per natura e spesso mi ritrovo ad ansimare nella corsa per tenere dietro alle evoluzioni tecnologiche di questa nostra epoca forsennata. Romantico idiota, sono il prototipo perfetto di coloro che accarezzano le pagine di carta, annusano i libri, li sfogliano facendo attenzione a non violentarne le pagine...
RispondiEliminaEppure da quando mi è stato regalato un tablet e ho scaricato l'applicazione di Kindle, scoprendone tutti i vantaggi cui hai accennato, non ho più comprato un libro di carta (o quasi) e mi sono ritrovato piacevolmente a leggere molto più di quanto già non facessi prima.
Sì, all'inizio fa questo scherzo. Ma poi passa o meglio si ritrova un equilibrio, e si torna - anche - ai libri di carta. Come è giusto che sia.
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