IL
VOLO DI CAMILLO
Un tonfo fuori dal balcone come una bomba, un breve infinito silenzio e
subito dopo un lamento: non si può sbagliare, questo è Camillo e
infatti eccolo là sotto, tre metri più in basso. Non si muove,
emette un lamento orribile, ha gli occhi sbarrati e lo vedo già
morto. Ci precipitiamo giù e si è rimesso in piedi, sconvolto,
scioccato, le pupille dilatate, non si regge in piedi. Si lascia
prendere in braccio. Per la prima volta è lui a cercarmi, con le
zampe, con lo sguardo: mi sento perduto, non so cosa fare, ho perso
la testa, per non dire di mia moglie, tento di consolarlo ma mi
scopro inadeguato, Camillo respira a fatica e un filo di sangue gli
colora la bocca come un orrendo rossetto. Patetici che siamo, io e
Claudia mentre cerchiamo il biglietto da visita della veterinaria.
Intanto Camillo si è trascinato in bagno, si è lasciato andare e
poi si è steso in terra in una posizione innaturale. Decidiamo di
non chiuderlo in gabbia, lo tiene mia moglie in braccio mentre io
guido imprecando: li lasciamo liberi di starsene sul balcone, cosa
che amano, anzi pretendono, anche quando ci assentiamo e non hanno
mai dato segno di volersi buttare giù. Nerino è capace di farsi
tutto il perimetro nel centimetro di balaustra oltre l'inferriata,
Camillo, più goffo e pesante, si accontenta d'accoccolarsi
sull'angolo esterno ed è qui che dev'essere scivolato, forse mentre
cercava di rientrare: ha appena piovuto, il marmo è sdrucciolevole.
La nostra amica Daria lo sottopone ad una prima visita sommaria, e non
trova niente di rotto: giusto i due canini superiori scheggiati. Ma
anche la mandibola, che è l'osso più a rischio, appare integra. Per
sicurezza ci vuole una lastra, ma Camillo decide che per oggi di
stress ne ha avuto abbastanza, si rivolta soffiando, cosa inaudita da
lui, contro Daria e neppure io riesco a farlo star fermo. È davvero
incazzato. Ne deduco che sta anche troppo bene e ce lo riportiamo
indietro, con mia moglie che riesce a calmarlo fino a casa. Qui
Nerino lo accoglie, vuol giocare, ma l'altro soffia anche a lui,
debolmente ma in modo esplicito: amico, lasciami stare che ho avuto
una giornatina del cazzo. Quindi si accoccola sul letto e non si
muove più. Mi avvicino con dolcezza, prendo a carezzarlo, ma fa
capire anche a me che vuole restare solo. Lo guardo. Guardo la sua
smorfia di felino immobile, inerte, che rischiava di gettarmi nella
disperazione e invece mi induce tanta tenerezza: perché è vivo, è
ancora qui. È il simbolo di tutte le creature
indifese questo gatto. Indifese, e sfortunate, e miti. Un anno, il
suo primo anno, sul balcone l'han tenuto, separato da un vetro, dal
calore di una casa. Di un altro gatto. Lui lottava contro la neve,
gli acquazzoni e la solitudine. L'abbiamo accolto che non aveva più
nessuna voglia di vivere. Ha preso certe abitudini da gatto deportato
che non gli passeranno mai, come mettere la zampa nell'acqua della
ciotola prima di bere (per “pulirla” dagli insetti) e impazzire
se si trova davanti una porta chiusa. Ma, soprattutto, testimonia con
gli occhi quello che non può raccontare, e che forse nemmeno ricorda
più. Occhi sempre velati di tristezza, increduli se lo copriamo di
tenerezza. Ci abbiamo messo otto mesi a rendergli una serenità
sconosciuta, ed io non faccio che abbracciarlo e coccolarlo. Anche
Nerino, naturalmente, ma Nerino è sempre stato con noi ed è sereno,
ha sviluppato con me una complicità che a volte è spaventosa per
quanto è eloquente, sale da un mistero insondabile e non troverò
mai le parole per spiegarla davvero. Camillo invece si comporta come
se tutto dovesse finire da un momento all'altro, come se quel balcone
lo aspettasse ancora. Si lascia fare tutto, ma l'affetto pare
confonderlo. Solo con mia moglie ha sviluppato una certa empatia. Si
capisce che tenta di emulare Nerino, ma l'interazione gli esce sempre
distorta, maldestra, un po' come le sue corse, come il suo modo di
giocare sgraziato, il suo fisico di micio sovrappeso che oggi l'ha
tradito. Adesso dorme ed io sono ancora scombussolato. Penso che, al
di là delle struggenti letterine che mi ricordano i miei fallimenti,
non potevo “fare carriera” se mi lascio destabilizzare dalla
disavventura di un gatto. Ma quello che io ricevo da questi animali,
non l'ho mai trovato in nessun umano. Scontato, banale, patetico, ma
non posso farci niente: so che, dovessi volare io giù da un balcone,
non sarei mai esistito per loro, avrebbero disperso il mio ricordo
così come il vento disperderebbe le mie ceneri. Ma so anche che
tutto l'amore che posso, con loro viene fuori. E loro lo accettano, a
modo loro lo cercano, mi fanno capire che ha un valore, quell'amore.
Che, finché io ci sono, è inimitabile. Che io sono quell'amore.
E che quell'amore è una delle poche cose buone che ho combinato in vita mia. Siamo il loro mondo, e mi pare giusto che loro siano il nostro e non
mi vergogno, a 48 anni, di scrivere sull'orlo di un pianto dirotto se
penso al mio Camillo che dorme ancora tremante, a quello che mi ha
detto Daria: “Gli è andata bene, coi gatti non si può mai sapere,
a volte superano tutto, a volte basta l'incidente più piccolo a
portarseli via”.
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