Io mi preparo ancora |
MI
RITORNA IN MENTE
Settembre
era il tempo del ritorno, ed io amavo quelle prime piogge, cariche di
ritorno. Inservibile il mare, ampiamente abusato, andavamo, prima di
ripartire, a comperare le scarpe, che qui costano meno e ci si faceva
l'inverno. Uscivo dallo spaccio coi miei camperos troppo grandi,
magari poi tornava il sole ed era un sole duro ancora, ma non li
toglievo. E sapevo che a scuola mi avrebbero preso in giro per quegli
stivali troppo da cow boy, troppo clamorosi, troppo marchigiani, ma
io ci viaggiavo dentro come il Gatto della favola. Non è che mi
dispiacesse stare in vacanza: ma, visto che ormai stava morendo, non
la sopportavo più quell'agonia e mi dicevo facciamola finita, che la
città ci aspetta. Ero sempre il primo tra gli amici a rientrare, del
resto ero pure il primo a sparire a fine giugno, e un'altra cosa
amavo: quella sensazione di straniamento che via via s'impadroniva di
me, ancora lungo la strada, ritrovando le vie che portavano a casa,
per poi esplodere davanti al condominio. Tutto della mia casa mi
respingeva, ci entravo come un intruso. Impressione che non pareva
colpire mia madre, la quale come la pazza che è sempre stata si
lanciava pretendendo di ripulire in un'ora un mese di polveroso
deserto (ci riusciva, sempre). Mio padre disfava i bavagli e poi si
rilassava un po'. Io mi aggiravo, tentando di riabituarmi insieme a
mio fratello. Ma ci volevano tre o quattro giorni, e lo stesso per il
quartiere: le saracinesche scese, coi soliti cartelli, “chiuso fino
al...”, non aiutavano la familiarità e me ne andavo in giro per i
miei percorsi ancora desolati, fino a via Teodosio, dove c'era il
cinema Porpora, gotico, cupo, viale Lombardia, parallele alberate che
portavano fino a città Studi coperta di alberi, dov'era più densa
la melanconia. E, se ci penso, tutta la mia vita è stata un viale
d'alberi, piuttosto che un mare di scorribande. Mi ci immergevo.
Anche qui, a Fermo, c'era tanta malinconia, però diversa, fatta di
vecchi palazzi, di odore di piccioni nelle nicchie, non era la mia; e
pensavo: Dio, dovunque ma non qui, non potrei mai finire a vivere
qui...
Recuperavo
lentamente confidenza, uscivo poco; avevo montato due piccole,
scassatissime casse di plastica ad un registratorino e ci ascoltavo,
come in vecchie conchiglie, le musiche dell'estate archiviata. Mio
padre vedendomi steso per ore in camera mia, motteggiava Trilussa:
“La felicità è una piccola cosa”. Ma io sentivo, guardando
fuori dalla finestra, alla finestra di fronte, di una che mi piaceva
tanto, e costruivo i miei mondi. L'estate era vacanza, ma tutto il
resto era la mia vita. E stava lì. E tornava, avvolto nelle piogge
che ridisegnavano la mia città, alternate a sprazzi di sole, l'odore
di una stagione dispersa in una gioia sporcata, una stanchezza
accesa. Mi sentivo diverso da quando ero partito, più vecchio non di
tre mesi ma di un anno. E già mi confondevo agli odori della città,
d'asfalto misto ad erba dei giardini, erba innaffiata, naturalmente
smog, ma anche cartoleria, libri, banchi di scuola, la polvere
animata della scuola, quella più malsana dei mezzi pubblici, della
gente sudata di fretta. In fretta Milano rinveniva, scuotendosi come
dopo un sonno narcotico, tutto riprendeva più convulso di quando
l'avevo lasciata. Andavo incontro al freddo, sapevo l'avrei
maledetto, sapevo ne sarei impazzito, intorno a febbraio, estenuato
già di buio e di libri, ma in quel momento l'attesa mi cullava: e,
uno dopo l'altro, riecco le presenze che mi avrebbero accompagnato in
quel conto alla rovescia verso una nuova estate.
Tutto
risento ancora, anche adesso che Nerino, potenza del primo fresco, è
tornato a sorpresa a stendersi su di me che scrivo e mi regala un
concerto di fusa, quasi a consolarmi. Tutto risento ancora, anche se
non ho più ritorni perché non ho più avuto partenze: ma io mi
preparo ogni volta.
E le
cose tornano a stanarmi, tutto ritorna in me. Pioviggina e ci sto
attento con la Vespa: sono tutto inzuppato, dalle infradito in su,
forse avrei dovuto mettermi due camperos, quando mi trovo davanti una
macchina vecchia, trent'anni almeno, ma di più, un'Alfa 90 grigio
metalizzato e sussulto, ma io la conosco questa macchina, sì, non ho
dubbi, ora non saprei dire come, quando, perché la mente si difende
da fantasmi troppo pesanti, ma è lei; quando scorro la targa, il cui
numero mi ritorna in mente come una canzone di Battisti o un vecchio
numero di telefono, ogni incertezza è vinta: e sto per correre
appresso al profilo ignoto che la guida, vorrei entrargli con la
testa nel finestrino, “Ma io l'ho guidata questa, io l'ho
posseduta!”. Ed è assurdo, a pensarci, perché l'unica cosa che
ricordo di quell'Alfa è che accompagnò uno dei periodi più tragici
per la mia famiglia. Ma adesso, che tutto è finito, che tutto è
perduto, non posso non provare una dolcezza contromano. Quali curiose
creature siamo noi umani; ed anche stupide.
E''un articolo bellissimo che non si riferisce solo a te, ma a tutti quelli che hanno vissuto in quei tempi e in quei luoghi, ed elargisce
RispondiEliminamiracolosamente sensazioni e ricordi, che "restituiscono" a chi legge anni di giovinezza. Carla