Passa ai contenuti principali

ITALIA SENZA FEDE



ITALIA SENZA FEDE
Wagnerianamente gli dèi conoscono il loro crepuscolo, tutti, anche quelli dello sport per i quali non è possibile durare che pochi anni. Certo, il loro tramonto è più drammatico, perché evidente, nelle forze che scemano, nelle prestazioni non più quelle, nella clamorosa defaillance sotto gli occhi del mondo. Altri dèi arrivano, pronti ad imporre le loro leggi, i loro record prima di conoscere a loro volta il declino. Sconcerta però un crepuscolo che arriva a ventidue, ventitrè anni come nel caso di Federica Pellegrini, la biondina che ha dato tanto all'Italia sportiva eppure non è amata, il suo crollo alle Olimpiadi di Londra è stato accolto con sarcasmo, su wikipedia l'hanno insultata pesantemente, molti hanno commentato con cinismo il suo ritrovarsi a mordere il vapor d'acqua. E si capisce, per quell'aria vagamente infastidita, sopra le righe, di chi considera tutto dovuto, di chi riesce arrogante anche se ce la mette tutta a nasconderlo, di chi su ogni inezia privata costruisce una tragedia ad uso e consumo degli sponsor. L'Italia ha perso la Fede e non se ne preoccupa.

Dicono che i ritmi dello sport di oggi siano troppo forsennati, che la competizione sia arrivata a livelli insostenibili, che i doping, anche quelli legali, per dire le alchimie degli stregoni moderni che, assai poco esotericamente, sanno trovare le panacee per ogna male, trasformare ogni sostanza nell'oro di energie prodigiose, logorino in misura proporzionale ai miracoli che scatenano. Ma lo dicevano anche cinquant'anni fa. A ventidue, ventitrè anni un tramonto fisico è fisiologicamente improbabile, è la testa che a un certo punto smette di funzionare, rifiuta le concentrazioni e gli stress dell'atleta, lo fa partire già sconfitto, già nauseato. Ha detto la Pellegrini, reduce da un umiliante quinto posto nei 400 metri stile libero di cui pure è primatista del mondo: “Non ne posso più, mi ritiro un anno poi si vedrà”.
E voleva dire (ma è stata subito indotta a correggersi, a smentirsi), non ne posso più non di nuotare, non di competizioni, non di medaglie d'oro che possono valere fino a un milione di euro, ma non ne posso più e basta. Di cosa? Di niente e di tutto, di tutto quel niente che sta intorno alla vasca e a 20 anni le aveva già preso la mano, quel “fare soldi per fare soldi per fare soldi” che Giorgio Bocca vedeva nella società ottusa di Vigevano nel 1960, quei calendari, gossip, dichiarazioni assurde alla stampa “L'astinenza prima di una gara non la conosco”, pose, amorazzi in pasto ai media, caroselli di allenatori, manager, consiglieri, calendari, locali aperti come l'american bar “Tacco 11”, tutto un programma, aperto nella natia Spinea, due libri, ma più che altro due albi, caratteri dilatati per illustrare una pioggia di foto glamour, la vita di una ventenne ondina in 90 paginette. Una vita perennemente sotto i fari, più che in piscina. Questo è quello che logora, che spreme e ingenera voglia di spegnersi. Certo gli atleti sono multinazionali, non ci scandalizziamo, non fingiamo di non saperlo, lo sono fin dai tempi dei giochi truculenti al Colosseo, oggi la proporzione è semplicemente adeguata ai tempi, e sono tempi folli. Ma chi questi atleti li gestisce, li cura, li amministra, non dovrebbe limitarsi a succhiarli, incluse le grate famiglie che poi si fanno fotografare con il ragazzo o la ragazza prodigio nel salotto coi ritratti dei nonni e, sotto, l'immancabile scritta: il successo non gli ha dato alla testa.
Invece è proprio questo il punto, il successo, forsennato, sempre più cattivo ed effimero, dà alla testa e “fare soldi per fare soldi per fare soldi” a 20 anni dà alla testa più di tutto. Non è un fatto di allenamenti, ci crediamo che la Pellegrini e gli altri si allenino anche più di prima, una medaglia olimpica è un forziere spalancato su nuovi altri tesori. Ma allenarsi solo per fare soldi, ogni volta un allenatore-stregone diverso, coi costumini alchemici che fanno scivolare nell'acqua o sull'aria, non funziona e se in vita tua non hai fatto altro che correre e nuotare, non le reggi le complicazioni, a volte tragiche, più spesso incomprensibili, che derivano dal trasformarti in slot machine, non ce la fai a reggere il peso della multinazione che sei diventato. Siamo oltre la naturale esuberanza da Ventesimo Secolo, siamo alla follia prometeica, autodepressiva, del Ventunesimo e forse i manager, gli allenatori, i parenti, tutti dovrebbero scortare questi atleti poco più che ragazzi, lasciar loro fare quello che sanno fare, quello per cui sono nati. A costo di perdere qualche occasione lucrosa. Ha dichiarato il presidente del Coni, Gianni Petrucci: “La Pellegrini è un essere umano, non può vincere sempre”. Frase saggia, ma smentita dalle aspettative, dalle pressioni, dagli stupori in odor di delusione, dalle pretese di vittorie a ciclo continuo. E dai contratti pubblicitari che, a quanto pare, raddoppiano a dispetto della figuraccia olimpica, a conferma che non conta più atleta ma la sua proiezione mediatica, il personaggio. Anche se insopportabilmente vuoto, mediocre o spompato.
Di Muhammad Ali, che riduceva le sfide mortali contro altri superuomini di nome Foreman e Frazier a pretesti in una girandola esistenziale di impegni, amori, affari e in mezzo ci metteva pure l'impegno politico per i neri di tutto il mondo, ce n'è stato uno: e, alla fine, ne è uscito distrutto perfino lui, l'atleta più simile a un dio che il mondo degli umani abbia conosciuto. A vent'anni puoi correre sull'acqua, volteggiare come l'Uomo Ragno, filare sull'aria come un missile ma se vuoi essere tutto di tutto, ti ritrovi a 23 a dichiarare che non he hai più, che sogni una vita normale, non da semidio ma da umano troppo umano. E, quel che è peggio è che non menti neanche, il nulla è davvero tutto quel che ti rimane da sognare.

Commenti